mercoledì, giugno 7, 2023
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Sergio Paglieri: la grande alluvione

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Si ringraziano Il Secolo XIX, Sergio Paglieri e Nicola Stella per la collaborazione


La grande alluvione: divisione in parti

Il Secolo XIXGuardavamo muti il grande invaso, sotto il palazzo di via Varese, dove la rotativa del Decimonono giaceva in un liquido nerastro. «L’acqua è niente – disse il tipografo Carloni – possiamo toglierla.Ma la corrente elettrica, chi ce la dà»? Per quella sera non avremmo sentito il rombo dei rulli che si avviavano; nessuno, ancora seduto in redazione a tirare le ultime boccate, avrebbe mimato per l’ennesima volta la grinta di Humphrey Bogart al telefono: «La senti? È la stampa, bellezza».
Quel mondo senza luce, senza forza motrice, ci spaventava, L’avevo già incontrato andando al giornale, nel pomeriggio di quello stesso 8 ottobre del 1970. La stazione Brignole era immobile e silenziosa, come morta. All’estremità del parco ferroviario, verso via Serra, un folto gruppo di viaggiatori, bloccato da una larga e profonda pozzanghera, non riusciva ad attraversare un cancello spalancato, per ritornare a casa. C’era un altro cancello, chiuso all’esterno da un grosso lucchetto. Un ferroviere mi aveva passato un martello tra le sbarre, senza dire parola. Spezzato l’ostacolo, la piccola folla si era dispersa verso la città alta.
Ora noi redattori facevamo gruppo, in attesa di ordini. I cronisti erano tutti fuori, non avevano smesso di lavorare dopo l’allarme della sera prima,quando il Leira, a Voltri, aveva travolto ogni argine e trascinato via quattro vite, forse più. Carlo Bancalari era ritornato ridotto a una statua di fango, con gli appunti inzuppati:«Mai tanta paura in vita mia».
Arrivò in redazione il direttore, Piero Ottone:«Da questo momento siete tutti cronisti, andate a vedere cosa è successo e perché è successo. Qui non potete far niente».
Andammo. Enormi cumuli di auto bloccavano i passaggi al di là del viadotto ferroviario, verso il cuore del Bisagno impazzito. Di fianco alla stazione, negozi sfondati dall’onda di piena mostravano i resti degli arredi. Su un’aiuola davanti al Mercato dei fiori si era adagiato, quasi con grazia, un divano.
Calava già il buio. In via Tolemaide una donna affacciata alla finestra chiamava i pochi passanti indicando il tunnel verso via Archimede, allagato e ostruito dalle auto accatastate: «C’è qualcuno lì dentro, l’ho sentito gridare!».
Arrivò un militare con la mantella impermeabile, forse era un carabiniere, s’addentrò nell’intrico di lamiere, nell’acqua ancora alta. Venne fuori con un uomo esanime tra le braccia e l’adagiò con cura in terra. Poi si fermò sull’attenti e si toccò la fronte e il petto, come per segnarsi. «Ve l’avevo detto che c’era!», singhiozzò la donna alla finestra. Poi lanciò in strada un lenzuolo: «Almeno copritelo, povera anima». Quel morto è rimasto incancellabile nella mia memoria, si chiamava Segreti.
Cercavamo l’acqua nelle strade e nella grande piazza, mal’acqua non c’era più. Eppure ne era arrivata tanta. Ci raccontavano della colonna d’auto che in corso Buenos Aires aveva fatto una compatta conversione a U per sfuggire alla piena che avanzava; del vigile che presidiava l’incrocio infondo a via Venti e, al momento della grande piena emergeva solamente con le spalle e il casco.Ci parlavano dei passeggeri che, per paura d’affogare, s’erano arrampicati sui tetti degli autobus e ora non avevano una scala per scendere. Mal’acqua? «È arrivata come un fulmine dai sottopassaggi – disse un edicolante – e come un fulmine se n’è andata, l’hanno ingoiata i condotti che vanno verso il Bisagno coperto.Guardate che ci ha lasciato».
Dovunque una coltre di fango, alta trenta centimetri e più, intrisa d’olio ed idrocarburi, di tritumi d’ogni genere.
L’alluvione era ancora presente negli scantinati dei palazzi, nei garage, nel piano inferiore d’un grande magazzino. Repellenti piscine piene di liquido sudicio, forse sepolcri ancora ignoti. Per saperne di più si attendevano i sommozzatori della “Rari Nantes” di Pegli, che avevano già aiutato la gente di Voltri. Le voci intanto s’ingigantivano, specialmente intorno al grande sottopassaggio in fondo a via XX Settembre. «Chissà quanti morti, lì dentro». Arrivò il direttore, Piero Ottone: “Andate a vedere cosa è successo e perché”.
Il Secolo XIXI vigili smistavano i mezzi di soccorso,consigliavano itinerari alternativi, correvano ad aiutare i passanti malfermi sulle gambe. Gridavano ordini e consigli ai colleghi, sempre in genovese,come se, nella disgrazia, si affidassero alle loro più profonde radici. Si udivano voci gracchianti, deformate, che andavano e venivano, adoperando uno strano gergo:«Cicu, cicu, riesci a copiarmi?». Erano i clandestini della Citizen Band, i pionieri dei vietatissimi radiotelefoni, perennemente inseguiti e multati dalla polizia postale. L’alluvione li aveva fatti uscire in strada allo scoperto e legittimava la loro opera.
Usavano, per riconoscersi, i nomi della clandestinità: Lima, Alfa, India, Mare. Con le loro autoradio aiutavano i vigili rimasti senza centrale di comunicazione e tenevano i collegamenti con la periferia e con i paesi isolati, per mandare soccorsi e anche per verificare le notizie incontrollate giunte di bocca in bocca: «No, non è vero che è crollato il Biscione di Quezzi, è venuta giù la facciata del Biscioncino, quello più in basso. E’ meno grave, anche se ci sono tanti senza tetto, saranno trecento persone…».
I ponti radio erano preziosi soprattutto perché permettevano di stabilire quali fossero i percorsi stradali possibili, in un territorio reso accidentato dalle frane, dal crollo di ponticelli insignificanti ma insostituibili. Di ora in ora si comprendeva che sarebbero stati decisivi anche i voli degli elicotteri, troppo pochi di fronte alle richieste di aiuto che giungevano un po’ da tutte le parti. La massa d’urto scaraventata dal nubifragio nei ristretti invasi delle decine di torrenti genovesi aveva creato un’infinità di punti di crisi. Far arrivare un ammalato urgente a un spedale era un’impresa disperata. E bisognava poi far sì che l’ospedale stesso fosse in buona salute, fruisse dell’energia elettrica e possedesse i medicinali necessari.
Il Comune aveva messo in campo tutti i suoi novecento vigili. Non bastavano, ma il numero dei volontari, quasi tutti ragazzi e ragazze, aumentava di ora in ora. Sarebbero stati, a ranghi completi, diverse migliaia, si diceva addirittura diecimila, compresi studenti arrivati da fuori Genova. Anche da Firenze, braccia giovani già rese esperte dall’alluvione dell’Arno, quattro anni prima.
Era necessario sfamare chi veniva da fuori, fornire gli attrezzi da lavoro, trasportare le squadre nei punti che richiedevano l’opera di soccorso. Entrarono in azione, per i trasferimenti dei giovani, prima camioncini rimediati, poi i bus dell’Amt. La prefettura, la questura, i comandi militari cercavano di agevolare, ma anche di coordinare, tutte le iniziative.
Il presidente della Repubblica, Saragat, inviò un telegramma di cordoglio per le vittime. Arrivò in aereo il presidente del Consiglio, Emilio Colombo. Si fermò sei ore in tutto, giusto il tempo di andare fino a Voltri e poi percorrere la val Bisagno con l’auto blu inzaccherata fino al tetto. Concluse la visita con una riunione in Prefettura e promise aiuti immediati, per decreto. I fondi furono effettivamente stanziati una settimana dopo: mezzo milione di lire a ogni nucleo familiare e a ogni commerciante colpiti dall’alluvione, una quindicina di miliardi per le opere pubbliche, sospensione delle imposte, crediti alle aziende private, cassa integrazione all’ottanta per cento. Poi si sarebbe mosso in parallelo il potentissimo IRI, allora quasi egemone sull’industria genovese.
Anche i più grandi stabilimenti erano in ginocchio, l’Italsider aveva temuto un immenso disastro, poi gli operai, lavorando freneticamente, erano riusciti ai solare dall’acqua tutti gli impianti che potevano andare in corto circuito e provocare esplosioni a catena.
Fin dalle prime ore dopo l’alluvione il centro operativo del Comune era stato installato nella palestra del liceo Doria, se ne occupava un assessore comunale, Ivo Lapi. Pale, carriole, ruspe,gruppi elettrogeni arrivavano dalle città più vicine. Un altro assessore, Cangelosi, titolare dell’Economato, aveva mandato un camion in Lombardia, ad acquistare pale e stivali. Ritornò dopo mezza giornata, con un ottimo carico. Il sindaco Augusto Pedullà si appellava ai cittadini: «State a casa il più possibile, lasciate libere le strade».
Nacque, giorno dopo giorno, la nobile immagine dei “ragazzi del fango”. Studenti poco abituati alla fatica fisica, spesso con le mani piagate dagli strumenti di lavoro, ma decisi a far fronte alle necessità. Stremati dalla fatica, dormivano nel primo angolo asciutto a portata di mano. Commuovevano fino alle lagrime le madri, inorgoglivano i padri, ricordavano ai nonni le fatiche e i rischi della guerra in grigioverde. «Quanta retorica» rispondevano, beffardi, i ragazzi del fango, che fino al giorno prima avevano speso le loro forze e la loro inventiva nella contestazione giovanile.
Il Secolo XIXRetorica a parte, finita l’emergenza, quando qualcuno propose di tradurre in bronzo o in marmo una delle tante fotografie dei giovani spalatori, tutti sperarono più o meno segretamente che quel monumentino si facesse. Sarebbe stato un ricordo civile, da mostrare,ormai da genitori, ai giovani della generazione a venire. Avrebbe legato ancor più tante vite alla sorte della città e rinverdito, magari, l’emozione di un innamoramento nato tra una palata di fango e l’altra e poi durato poco, oppure, chissà, giunto a buon fine.
Ma il piccolo omaggio alle fatiche dei ragazzi del fango non si fece.Qualcuno che contava disse che l’alluvione di Genova era una vergogna da dimenticare, altro che monumento. E tutto finì lì.
Mentre in città prendeva sempre più forma la macchina dei soccorsi, al Decimonono il direttore della rotativa, Guido Materassi, stava recuperando e riattando un vecchio gruppo elettrogeno appartenuto a un sommergibile e poi rimasto a lungo inutilizzato in un magazzino di Terralba. Fino alla sera dopo, però, saremmo rimasti con le macchine ferme. Invidiavamo i colleghi del “Lavoro” che se ne stavano all’asciutto sull’altura della Villetta Dinegro e preparavano le loro edizioni nella tipografia intatta. Uscirono con un titolo tragico: “Fango e morte”. L’inizio dell’articolo principale, firmato da Umberto Merani, era intriso di pessimismo: “Genova sa di non essere Firenze…”. Le rassicurazioni e le promesse del presidente del Consiglio dovevano ancora arrivare.
Il mattino dopo l’alluvione raggiunsi Borgo Incrociati, al di là del viadotto ferroviario di Brignole. Fu lì che incontrai il primo gruppo di ragazzi e ragazze al lavoro. Spalavano con gran lena, ma per il momento non potevano fare altro che spostare il fango ed ammucchiarlo, in modo da permettere il transito dei pedoni. Gli antiquari avevano messo i loro preziosi pezzi in strada, cercando di liberarli con delicatezza dalla tenace fanghiglia. Un ragazzo mi adocchiò, portavo un impermeabile chiaro, nuovissimo, sembravo un curioso sfaccendato, anche se avevo un taccuino in mano e la Polaroid in spalla. Mi scaraventò una palata di fango sulla schiena. «Così sei come noi» mi disse, con un ultimo guizzo sessantottino.
Uno degli antiquari mi vide malconcio e mi chiamò dentro alla sua bottega. Si chiamava Cuneo, restammo amici finché visse. «Venga – mi disse quella mattina– la ripulisco un po’, c’è sempre in giro qualche testa matta». Mi mostrò un quadro appeso alla parete. Era una Madonna ovale, attraversata da una riga nerastra, orizzontale. «Vede? L’acqua è arrivata fin lì. Qui alla porta accanto c’è l’albergo “Stella d’Italia”, ci sono annegate due povere donne. Quelle sono disgrazie, i quadri e i mobili si restaurano».
Al Consorzio agrario, accanto al palazzo delle Poste, mi mostrarono le scaffalature con i sacchi delle farine e delle sementi intrisi di melma.«Ogni centimetro in più di alluvione erano milioni che se ne andavano – disse il titolare – Se è stata una fatalità mi rassegno, ma se scopro che qualche pelandrone disgraziato ha fatto aumentare quei centimetri, allora lo strozzo con le mie mani».
Il vecchio ponte di Sant’Agata, a pochi metri da quello nuovo, aveva perduto le arcate verso corso Galliera e sembrava già conscio del fatto che nessuno lo avrebbe più ricostruito. Da un arco spezzato usciva un torrente d’acqua potabile, aveva ceduto anche la grossa condotta murata nel ponte. Al vicino distributore, il benzinaio era seduto in terra,con le testa tra le mani: «Mia mamma si era spaventata della pioggia battente, le ho detto “Fermati qui, adesso passa”. Male mi ha detto che andava a casa. Quando è stata a metà del ponte vecchio è arrivata l’ondata di piena. È sparita, non la vedrò mai più. Mi dica lei, come posso continuare a lavorare con quel ponte davanti agli occhi tutto il giorno? Ogni volta ripenso a mia mamma e piango. Non ce la faccio».
Molti morti li avrebbero ritrovati parecchi giorni dopo su una spiaggia francese. Li aveva trascinati al largo l’impeto del fiume, affidandoli poi alla corrente marina. Trent’anni dopo avrebbe compiuto lo stesso tragico itinerario il corpo della contessa Vacca Agusta, protagonista del giallo di Portofino.
A Borgo Incrociati ad ogni occhio di bottega c’era una storia da ascoltare. Il fornaio di via Moresco, preso da un tremito continuo, non riusciva a stare fermo: «Ero imprigionato dall’acqua in quella stanzetta che s’affaccia proprio sul Bisagno, quella lì con l’inferriata. Stavo aggrappato e vedevo il fiume che saliva a poco a poco. Mi ripetevo “ la morte del topo, la morte del topo” e pregavo. L’onda è passata un dito sotto il davanzale. Venga che le mostro il segno».
Il Secolo XIXVicino alla chiesa dei Diecimila Crocifissi c’era un grande negozio pieno di telerie e biancheria da casa. Roba finissima, divenuta un viluppo di fanghiglia. Due commesse guardavano impotenti la tomba del loro lavoro. Una mi disse: «Vede, noi non siamo in grado di recuperare tutta questa merce, ma, in fondo, è solo sporca.Ci vogliono mille donne genovesi che vengano a prendere lenzuola e tovaglie e le mettano nelle loro mille lavatrici. Vendiamo tutto a poche lire». Quando potei scriverlo sul giornale le donne genovesi arrivarono davvero e il negozio, la sera dopo, era completamente svuotato.
In un emporio di utensileria domestica il titolare ce l’aveva con il Decimonono. La sera prima dell’alluvione, da cronista diligente e informato,Giulio Vignolo aveva scritto, in un’ “ultima ora”, che anche il Bisagno, dopo il Leira, minacciava di uscire dagli argini. «Capisce – diceva il negoziante – la previsione dell’evento potrebbe influire, e molto, sui risarcimenti dell’assicurazione. Ma chi gliel’ha detto, a quello là? Voglio saperlo». Cercai di rassicurarlo, se ci fosse stata davvero una previsione sicura le autorità si sarebbero mosse e non avremmo avuto dei morti da seppellire.
Al “Secolo” i vigili del fuoco avevano prosciugato l’invaso della rotativa, il gruppo elettrogeno funzionava, stava arrivando anche un allacciamento elettrico provvisorio. Piero Ottone radunò la redazione. «Il titolo di domani – disse – è“Genovaresiste”. L’ho scelto perché dobbiamo già passare alla fase della speranza. Sono sicuro che ognuno di voi ha tantissime storie da raccontare e mi aspetto che lo faccia, la gente vuole sapere. Ma bisogna anche guardare più avanti. Avete visto i ragazzi? Sono meravigliosi, impariamo da loro, una volta tanto».
Bastò lanciare, con un titolo non appariscente, una sottoscrizione per i primi soccorsi, che i lettori cominciarono ad affluire in gran numero nel palazzo di via Varese. Tanti posavano il denaro sulla scrivania del segretario di redazione e se ne andavano senza neppure attendere la ricevuta. In poche ore raccogliemmo una decina di milioni. «Adesso tocca a voi – ci disse Ottone – questi denari devono arrivare al più presto a destinazione, c’è gente che ha bisogno. Mi fido della vostra onestà e del vostro discernimento ».
Così cominciammo in parecchi a uscire con le tasche piene di denaro, a dare qua e là limitate, preziosissime somme. Un anno dopo, quando rifacemmo il giro per vedere quale fosse stata la sorte dei sinistrati, un falegname abbracciò piangendo un nostro cronista: «Voi del Secolo mi avete salvato la vita, avevo sott’acqua tutta la bottega, non mi era rimasta una lira in tasca. Per il primo mese ho potuto mangiare grazie ai soldi che mi avete regalato».
A quell’epoca, quarant’anni fa, il termine Protezione civile non era nell’orecchio e sulla bocca di tutti come adesso, se fosse arrivato un Guido Bertolaso con il pullover tricolore e il piglio di manager onnipotente lo avrebbero preso per un extraterrestre. Ci si affidava soprattutto al buon senso e alla buona volontà. I raccordi tra vigili del fuoco, Comune, Prefettura e altri enti funzionavano. C’erano, purtroppo, anche sacche di resistenza burocratica: al Biscioncino trecento senza tetto erano rimasti a lungo all’addiaccio perché la Gescal di Roma non si era fidata a prestare le chiavi di quaranta appartamenti vuoti del Biscione. A onore dei genovesi, nessuna porta fu comunque forzata.
Quasi per contrasto alla sordità pubblica, si fecero avanti i costruttori edili privati, capeggiati da Viziano: offrirono al Comune la disponibilità immediata, per sei mesi, di venticinque alloggi, e altri ne promisero.
C’era chi stava seduto in terra, rassegnato, con una coperta sulle spalle e chi, invece, gridava, spinto dalla disperazione: a piazzale Adriatico, a monte dello stadio di Marassi, gli abitanti di edifici popolari devastati dall’acqua, dal fango e dalla nafta uscita da un vicino deposito, si erano piazzati in mezzo alla strada e la bloccavano, reclamando soccorsi immediati. I loro alloggi erano al primo piano, avevano perduto tutto, stavano lì sulla carreggiata come storditi, con i bambini in braccio e le ciabatte ai piedi. Si erano salvati appena in tempo salendo su per le scale.
Il Secolo XIXCon il ritorno dei colleghi sparsi per la città e il circondario,arrivavano tante altre piccole e grandi storie dell’alluvione. Tomati raccontava del Biscione, Bianchi del Centro Storico,Tafani descriveva il negozio di sedie devastato di Vittorio Sardelli, glorioso terzino rossoblù. Ascoltavamo con gli occhi lucidi la storia di Maria Luisa Repetto, la ragazza di diciassette anni che l’onda assassina del Chiaravagna aveva strappato dalla mano del fidanzato; ci sconvolgeva la tragedia di una mamma dell’Acquasanta, trascinata via dal torrente mentre tentava di salvare il suo bambino di dieci anni, GioBatta, rimasto miracolosamente aggrappato a un albero.
Mattana telefonava dalla Valle Stura disastrata, Giorgio Giugno e Sandro Grimaldida San Gottardo devastato dal rio Trensasco. Franco Rubino presidiava l’aeroporto, annotava i carichi degli elicotteri che, però, alle diciotto dovevano fermarsi a terra, per via del buio. Antonio Ferrari, allora cronista alle prime armi, si occupava dei ragazzi del fango. Era ritornato da Voltri anche Pietro Ferro, il cronista più esperto, narratore affascinante sia a voce sia sulla carta stampata. Descriveva una delegazione affidata a soccorsi un po’ caotici, parlava d’un maresciallo dei carabinieri ferito che rifiutava il ricovero e continuava a lavorare, d’una famiglia di origine iugoslava che si era presa in casa due coniugi calabresi sfrattati dalla piena del Leira. Narrava della fame dei voltresi, quasi incredibile, dal momento che nei negozi della confinante Prà c’era abbondanza di tutto. Ma a Voltri mancavano i soldi per gli acquisti, i piccoli aiuti del Decimonono erano stati accolti come una benedizione. A Pietrin Ferro tremava la voce mentre parlava dei bambini infangati; poi, da spezzino un po’ anarchico, ritrovava la sua “verve” raccontando di quel giovane c he aveva pensato bene di fischiare il presidente del Consiglio Colombo arrivato in visita a Voltri, ma era stato bloccato con decisione da un dirigente comunista: “Sev uoi fischiare vattene a Pra’”, gli aveva detto. Il taccuino di Ferro era davvero inesauribile, il collega ora narrava di una bomba buona, che aveva salvato una decina di persone nel municipio di Voltri.
Erano intrappolate dall’acqua al piano di sotto e chiedevano aiuto. Sopra li udivano i cancellieri della pretura che non avevano mezzi per bucare il pavimento e mettere in salvo i pericolanti. A un tratto però si erano ricordati che in un armadio c’era un corpo di reato pesante, un grosso proiettile disinnescato. Con quello avevano fatto il foro della salvezza. Si era riaccesa la luce in redazione, ma sulle scrivanie erano pronte le candele, per non fermare le macchine da scrivere in caso d’improvvisi salti di corrente. Sul tavolone da disegno del grafico Umberto Torlizzi si accumulavano foto sempre più sconvolgenti. Un uomo affogato nella nafta a faccia in giù, un treno con 250 persone rimasto in bilico sul burrone, a Mele. Di quel convoglio sapevamo ormai tutto, imprigionato tra una frana e un baratro apertosi tra i binari. Il capostazione Sirito e i suoi colleghi della stazione, lottando contro il fango e contro il trascorrere del tempo che ingigantiva il rischio, avevano portato via dalle carrozze i passeggeri caricandoseli sulle spalle. Era un treno pieno di bambini e di vecchi. Tutti miracolati. Il direttore Ottone scelse, per accompagnare il titolo “Genova resiste”, una grande foto dei “ragazzi del fango” all’opera. Il titolo a nove colonne del giorno dopo, “40milasenza lavoro”, era accompagnato dall’immagine d’una madre col figlioletto sulla soglia della loro abitazione invasa dal fango. Il bimbo, circa cinque anni, con stivali troppo grandi, si appoggiava appena a una poltroncina di vimini. Aveva sul volto una smorfia di stanchezza e di rassegnazione. Nei giorni seguenti, ritornate le linee, telefonavano, commosse, le nonne: “Quel bambino della foto, chi è? Ora sta bene? Povio figgieu!”.
Pensavamo che il disastro del centro genovese fosse limitato alla zona intorno a Brignole, ma non avevamo tenuto conto delirio Sant’Anna che aveva colpito la città vecchia e Sottoripa. Dovunque allagamenti, dovunque melma. Tutto il tessuto commerciale di piccoli ristoranti, friggitorie, focacciai, che viveva sui lavoratori del porto, era finito nel fango e nel liquame delle fognature scoppiate. Duemila paia di scarpe stavano a bagno in un deposito di via Orefici. Si pensava già di organizzare, alla Fiera del Mare, una svendita di merci alluvionate, per aiutare i negozianti colpiti.
Il Secolo XIXSoccorse per prime le persone, si cominciava a fare l’inventario dei danni materiali. All’Anagrafe di corso Torino si spalavano via, perduta ogni speranza di recupero, più di cinquant’anni di vita minore della città. Non i registri dello stato civile che erano in salvo ai piani superiori, ma tutte le annotazioni riguardanti i cambi di residenza e di casa, le successioni di attività nei negozi. L’anagrafe storica, insomma. Carte che raccontavano la vita di gente comune ma anche di personaggi illustri, dei quali i biografi avrebbero cercato poi, invano, le tracce genovesi. Schedari, certificati, era tutto nello scantinato del palazzo, divenuto facile preda dell’alluvione. Non perdevamo cimeli nobili come quelli di Firenze, ma tra i cultori della storia minore cittadina regnava un’uguale tristezza. Le loro ricerche potevano ormai poggiare solamente sulle vecchie annate della Guida Pagano, divenute ancor più preziose.
Al giornale stavamo entrando nella seconda fase del lavoro, occorreva passare dal “che cosa è successo” al “perché è successo”. Il direttore Piero Ottone aveva preso la penna per far notare che tragedie come quella di Genova potevano anche trasformarsi in elementi di forza, a patto che fossero seguite da investimenti per la ricostruzione; in caso contrario significavano morte.
A Manciotti, Arato, Badino, Ronco e Crisalli toccavano gli articoli di sintesi e di approfondimento, cronisti e redattori dovevano continuare a scavare nella realtà con mille domande, senza accontentarsi di prevedibili risposte evasive. C’era la sensazione che non tutte le coscienze dei personaggi pubblici fossero pulite. Negligenze ed omissioni potevano aver aggravato il disastro.
Si concluse in quelle ore un grosso caso di cronaca nera in corso nel periodo precedente all’alluvione: i misteriosi rapitori che avevano sequestrato Sergio Gadolla, erede d’un impero di cinematografi, lo rilasciarono, dopo aver incassato un grosso riscatto. Era il primo autofinanziamento d’una lotta armata in incubatrice, quella della banda XXII Ottobre, ma non lo sapevamo ancora. Dedicammo alla liberazione un paio di titoli distratti, avevamo ben altro per la testa.
Il disastro di Voltri era stato immane,ogni delegazione aveva avuto i suoi danni, i genovesi sapevano ormai a memoria i nomidi torrenti fino ad allora semi sconosciuti ai più: il Torbella, il Leira, il Ruscarolo, il Chiaravagna. Ma la domanda principale era: perché il Bisagno, torrente bene arginato e addirittura coperto nella parte finale, aveva fatto tutti quei danni, portandosi via anche tante vite? Si poteva pure guardare con sospetto il campetto dell’Anpi Bellucci che ostruiva una parte del letto, i cumuli di lastroni di pietra rimossi dalle strade e gettati sul greto per fare spazio all’asfalto, l’officina dello sfascia carrozze, gli orti dei pensionati. Fatte le proporzioni, si doveva però concludere che non erano stati quegli ostacoli a imbizzarrire il fiume, a far crollare un ponte plurisecolare, a “sparare” sulla città una valanga di acqua melmosa.
Era stata poca roba, in confronto, l’alluvione del 1953, che pure aveva raggiunto le stesse zone della città, forse con acque meno alte. Me la ricordavo bene, quell’uscita del Bisagno,senza morti, fortunatamente. Allora ero studente, ma nessuno mi aveva chiesto d’impugnare una pala. Lo avrei fatto volentieri,ci eravamo già mobilitati due anni prima per raccogliere i soccorsi al Polesine inondato.
Adesso che il disastro era stato molto più pesante, per trovare le cause occorreva ripercorrere, con pazienza, il viaggio della grande massa d’acqua. Su verso la Scoffera, alla presa di Bargagli, la piena della parte montana del Bisagno era arrivata alle 17, quando Genova aveva già subìto il finimondo. Lassù presidiava il misuratore di livello l’unico addetto ufficiale alla sorveglianza del torrente.Si chiamava Zancanaro ed era un uomo precisissimo e scrupoloso. Per quel lavoro percepiva 30mila lire l’anno: «Ecco qui il foglio dell’apparecchio di misurazione, ore diciassette».
Il percorso montano del Bisagno era quindi da assolvere, occorreva cercare in basso, da Prato in giù. Passo dopo passo, controllando i punti di esondazione, venne fuori che una gran parte dell’acqua impazzita era giunta dagli affluenti di destra voltando le spalle alla sorgente: il Rio Torbido, il Geirato, il Trensasco, il Cicala, il Preli. E da sinistra arrivava il Fereggiano, in larga parte sotterraneo. Si era parlato della sua particolare pericolosità, sembrava possibile deviarlo direttamente verso il mare. Forse per giustificare l’assurda mancanza d’iniziative, a Palazzo Tursi qualche consigliere democristiano faceva circolare voci maliziose: «Del Fereggiano si occupano i socialisti, non vogliono che altri se ne impiccino». I genovesi conoscevano a memoria i nomi di torrenti fino ad allora sconosciuti. La domanda principale era: perché il Bisagno aveva fatto tutti quei danni? Un momento di riposo e di serenità per i ragazzi infangati che spalavano senza sosta sui marciapiedi, nei sottopassi, e nelle cantine. Dopo il diluvio del 7 e 8 ottobre, già la mattina del 9 si lavorava al sole.
Il Secolo XIXTra i torrenti sotto accusa c’era anche il Veilino, che attraversava il cimitero di Staglieno e sfociava con una bocca strozzata dagli edifici. Aveva fatto un bel po’ di danni tra i sepolcri e si era anche portato via la salma di Flavia Steno, la scrittrice considerata un’icona del Decimonono anteguerra. La gente aveva visto galleggiare, nel Bisagno che piombava sulla città, anche alcune casse da morto. Sperava che fossero vuote.
Altri torrentelli senza nome avevano rinforzato la grande onda, anzi, le onde, perché, a detta dei testimoni, sulla superficie del torrente si vedevano le creste d’acqua tipiche di una mareggiata. Le passerelle pedonali cadevano una dopo l’altra per effetto domino, i loro resti trascinati dalla corrente colpivano e abbattevano i piloni ancora in piedi.
Poi, in fondo alla corsa all’aperto, c’era stato il grande urto contro il ponte ferroviario, trasformatosi misteriosamente in un muro impenetrabile. L’enormeriflusso aveva colto il ponte di Sant’Agata dal lato meno difeso, e per metà delle arcate era stata la fine. Immediatamente la massa d’acqua bloccata aveva imboccato i sottovia ferroviari, invadendo il tratto pianeggiante della città compreso tra Tommaseo e l’ultimo tratto di via XX Settembre. Come se il canale sotterraneo fosse improvvisamente sparito. C’era la mareggiata, è vero, ma i flutti non potevano rappresentare un ostacolo più forte della corrente.
Mi ricordarono che a Genova esisteva un servizio idrologico dipendente dal ministero dei Lavori pubblici. Lo dirigeva un giovane ingegnere, arrivato da pochi mesi. «Mi chiamo Lino Cati – mi disse ricevendomi – ma si ricorda meglio Cati Lino, per assonanza. Certo, sul bacino del Bisagno c’è stata una notevolissima quantità di pioggia, ma non quanto quella caduta sul Polcevera. Il pluviometro di Bolzaneto ha segnato 948 millimetri di massima in ventiquattr’ore, una cifra da record europeo, sicuramente la più alta in Italia. Quando ho comunicato le mie misurazioni, mi ha telefonato il mio capo, da Parma, per dirmi che lui, per principio, era contrario a quelle cifre così alte, non gli sembravano serie. Ma io sapevo il fatto mio e ho tenuto duro».
«Non mi dica, scommetto invece che ha obbedito e ha tolto qualche decina di millimetri dal rapporto, forse la misura reale era un metro tondo tondo».
«Non faccia illazioni, altre domande?».
«Certo, mi spieghi perché sul Polcevera non è successo alcun disastro, a parte gli allagamenti portati soprattutto dagli affluenti». «Perché il letto è più grande e gli argini sono stati più curati grazie ai lavori del consorzio obbligatorio tra tutti i proprietari che confinano con il fiume. Sul Bisagno il discorso è ben diverso, il torrente per lungo tempo non è stato neppure classificato, il consorzio non c’è e si procede a manica larga quando qualcuno chiede concessioni nel greto. Guardi un po’ il terrapieno davanti allo stadio di Marassi e poi mi sappia dire».
Del consorzio del Polcevera mi aveva parlato a lungo, in redazione, il collega Massimo Zamorani, che ne stava scrivendo. La civilissima idea di unire le forze dei frontisti del fiume risaliva addirittura al 1858, quando erano nati i primi insediamenti industriali. I lavori non avevano però sistematicità e organicità. Così, nel 1945, il Polcevera aveva fatto un mezzo disastro, ripetuto nel 1952. Un benemerito personaggio, Giuseppe Gennaro, si era dedicato per una dozzina di anni a creare il consorzio e alla fine erano stati fatti i lavori, argini e briglie, grazie anche alla potenza economica dell’Italsider. Questa volta il Polcevera era uscito in un tratto ostruito da un terrapieno industriale, tra la passerella del Campasso e il ponte di Campi, ma il resto aveva retto bene, anche se era stato necessario interrompere per un po’ il transito sul ponte di Cornigliano, lasciando Genova divisa in due. Comunque, nulla a che vedere con il disastro del centro cittadino.
Andai dal geometra Garibaldo del Genio Civile: «Quanti sono i concessionari nel greto del Bisagno?». Mi guardò sbalordito: «Se ha tempo vado a contarle le pratiche, ma ci vorrà un bel po’». «Lasci perdere – disse a Garibaldo l’ingegner Cervetto dello stesso ufficio – sono certamente qualche centinaio. Comprese però anche le concessioni al Comune, per ponti e passerelle. Tutti i manufatti che poggiano sul terreno del demanio pagano un canone, e il greto del Bisagno è un bene demaniale». «Quanto pagava il vecchio ponte di Sant’Agata, quello crollato?». «Beh, i ponti pagano sulle dodicimila lire all’anno». «Un bel risparmio, per il Comune…».
«Lasci perdere le ironie, anche la copertura del Bisagno paga un canone allo Stato, quasi mezzo milione di lire». «A proposito di copertura, perché non ha ricevuto tutta la piena o, almeno, gran parte di essa?». «Una mezza idea ce l’ho, ma è meglio che se lo faccia spiegare da un professore di idraulica. Un’ultima cosa, non dia al Genio Civile la colpa per lo stato del torrente, noi non potevamo fare lavori perché il Bisagno fino a poco tempo fa non era neppure classificato, non apparteneva ad alcuna categoria. Siamo intervenuti sul tratto superiore, che rientra nei piani di bonifica montana. Sopra Staglieno abbiamo costruito delle briglie, che rallentano la corsa dell’acqua e trattengono i detriti». «Ma possibile che il Bisagno fosse figlio di nessuno?» «Non si meravigli troppo, anche l’Arno in certi tratti non è classificato. E ha fatto quel che ha fatto».
Cercare notizie sulla copertura del Bisagno era una vera impresa. Gli uffici del Comune dovevano saperla lunga sullo stato del grande manufatto, ma facevano il muro di gomma di fronte alle mie domande. Lo facemmo notare sul giornale. Rispose con una lunga lettera il sindaco, Augusto Pedullà, elogiando il riserbo tenuto dai suoi funzionari in ottemperanza a quanto prescritto dai regolamenti; anche, addirittura, in materia di notizie non coperte da segreto. Norme – precisò – che erano state spesso richiamate dal segretario generale con specifici ordini di servizio.
Il puntiglioso riferimento alle regole non ci meravigliò: dato il carattere della persona, trattare con il sindaco Pedullà significava dover affrontare un interlocutore che non si faceva problemi a rispondere a muso duro, quando gli sembrava il caso.
Il Secolo XIXMa qui si parlava di un’alluvione, e che alluvione. Anche il primo cittadino si era reso conto, questa volta, che la non collaborazione era stata forse eccessiva. Così precisò nella lettera che ad ogni primavera, nel mese di maggio, il condotto sotterraneo veniva accuratamente ispezionato. L’ultimo esame aveva messo in evidenza il normalissimo stato del grande canale, niente affatto intasato, tanto che la pavimentazione in cemento era visibile quasi dappertutto.
Un’altra cosa rivelò il sindaco: che i famosi torrenti e torrentelli che avevano disastrato mezza città erano stati a loro volta ispezionati; il tratto coperto del Leira era perfettamente sgombro e non si notavano ostacoli anche nel Chiaravagna, nel Cantarena, nel Rexello e nel Ruscarolo. Pedullà aggiunse una precisazione curiosa: «Il Comune, in questi corsi d’acqua, è responsabile solamente dei tratti di greto sottostanti ai ponti comunali ». Cioè poco o niente.
Il compatto ossequio dei dipendenti comunali alle circolari sul riserbo s’incrinò quando un anonimo funzionario mi chiamò per telefono: «Vada – mi disse – all’inizio del sottopassaggio verso via Canevari, sulla destra. C’è una porticina di ferro, la lasciano sempre aperta. Entri pure, non c’è pericolo, vedrà il punto preciso del disastro». Andai, e mi trovai sospeso all’altezza del soffitto del condotto sotterraneo: più in alto, un muro semi-sfondato occludeva tutta la metà superiore degli arconi della ferrovia. Spiccavano, evidentissime, le tracce dei mulinelli che si erano formati in quel punto; rami, pezzi di mobili e ogni genere di rifiuto erano rimasti conficcati nel muro, come piantati a martellate. Impressionava soprattutto la carta, che ciondolava da ogni appiglio: brandelli che sembravano bandiere umiliate d’una trincea sconfitta.
Temetti di vedere anche membra umane, ma sicuramente i vigili del fuoco erano stati anche lì, dopo la grande onda. Scesi sul greto grazie a un enorme cumulo di ghiaia che arrivava fino alla strada e m’inoltrai nel tunnel che portava il torrente alla Foce: la platea era davvero sgombra ed erano già ritornati i topi, scampati non si sa come all’invasione del loro regno. Anche se il soffitto del condotto era alto quanto la metà inferiore dei grandi archi delle ferrovie, l’imboccatura del tratto coperto sembrava grandiosa.
Ritornai al servizio idrometrico e al Genio Civile, rifeci il giro degli uffici chiedendo questa volta informazioni non ufficiali ma ufficiose, da riferire senza far nomi. Il mio ragionamento era questo: «Mettiamo che la piena assorbibile dalla copertura del Bisagno sia di 650metri cubi al secondo; mettiamo che ne siano venuti giù ottocento, è possibile che quei centocinquanta metri cubi tracimati abbiano messo in ginocchio mezza città?».
Venne fuori la verità: i metri cubi arrivati erano forse mille al secondo ed erano andati tutti quanti ad allagare Genova. Nel condotto il torrente aveva cessato di scorrere perché la superficie dell’acqua aveva raggiunto il soffitto. «Provi a riempire una bottiglia – mi disse un tecnico – e poi la capovolga di colpo. Per un certo numero di secondi non si svuoterà, farà al massimo qualche fiotto. Il condotto del Bisagno, progettato dall’ingegner Fantoli che era il più bravo di tutti, è del tipo detto “a pelo libero”, per funzionare deve avere sempre un po’ d’aria tra acqua e soffitto, altrimenti si blocca completamente ».
L’esperimento della bottiglia – obiettai – dura pochi secondi, poi l’uscita del liquido diventa più abbondante, anche se rimane irregolare. Per quanto tempo può essere stato intasato il Bisagno sotterraneo? «Calcoli pure un minuto, sono sessantamila tonnellate d’acqua riversate sulla città». «Ci sono rimedi?». «Forse costruendo grandi sfiatatoi lungo il percorso, ma non siamo sicuri della loro efficacia. Oppure scoperchiando di nuovo il torrente e restituendogli le aree golenali che si era creato nei millenni. Intorno alla parte finale del Bisagno c’era originariamente un’immensa palude, che si riempiva con le piene e si svuotava nei periodi di secca, senza far danni.Ora ci hanno costruito sopra strade e palazzi. In profondità, però, il lago c’è ancora».
«Sarebbe possibile – chiesi – scavare il letto coperto, abbassarlo? ». «Bisognerebbe sottofondare tutto, evitare l’erosione della base degli arconi ferroviari. L’imbocco del condotto è proprio il punto più debole, il problema nasce lì e lì deve essere risolto. Abbassare il fondo? Toccherebbe poi fare i conti con l’altezza del litorale, ultimo destinatario dell’acqua del Bisagno. Occorrerebbe prolungare il canale sotto il mare fino a trovare la maggiore profondità. Sperando poi di non incontrare altre forze contrarie, come le mareggiate».Lavori, lavori.Chili avrebbe pagati? Del Bisagno si era occupato poco tempo prima il Consiglio superiore del Lavori Pubblici e in modo non positivo per la città. Al torrente, aveva sentenziato l’alto consesso, toccava l’inserimento nella terza categoria, quella non a totale carico dello Stato. Era necessario quindi organizzare una battaglia politica per migliorare la classificazione.
Ora funzionavano a pieno ritmo le centrali di comunicazione, la luce ritornava in tutti i quartieri, si poteva telefonare ai parenti per raccontare, ognuno, la sfida con l’alluvione, l’avventura piccola o grande. Gli uomini della Citizen Band se ne ritornavano nella clandestinità, a “copiarsi” tra loro, in una perenne sfida notturna ai sorveglianti dell’etere.
«È stata davvero una buona esperienza – mi raccontò uno di loro – lavoravo in coppia con un vigile. In principio lui, quando aveva bisogno di collegarsi con il suo comando, mi chiamava dicendo “Ehi, pirata, vieni qui!” e io gli rispondevo “Subito, blocchetto”. Alludevo al blocchetto delle multe, per me i vigili erano soprattutto dei rompiscatole con la biro facile. L’ultima volta, per salutarci, ci siamo detti semplicemente “ciao”. Niente più pirata, niente più blocchetto. Sa, i vigili di Genova hanno un cuore immenso, li ho visti fare, nella melma, cose da ricordare con le lacrime agli occhi. Vacillavano, ma non ne ho visto crollare uno. Anche noi CB siamo stati niente male. Lei ce l’ha il “baracchino”? Mi chiami se le capita, la mia sigla è Volpe Blu»