mercoledì, giugno 7, 2023
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Testimonianze

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Io avevo 11 anni nel 1970 e abitavo a Genova, nel quartiere del Lagaccio, non lontano dalla Stazione Principe. L’estate di quell’anno era trascorsa asciutta e anche il settembre, spesso teatro, soprattutto dopo la seconda metà, di intensi temporali sul Golfo Ligure, innescati dalla discesa di aria fresca sulle calde acque mediterranee, quell’anno aveva visto cadere pochissima pioggia.

Il previsto arrivo di una perturbazione per il giorno 7 ottobre era quindi da me, ma un po’ da tutta la città, salutato in modo ampiamente positivo, a porre fine a qualche problema di approvvigionamento idrico che cominciava a verificarsi. Come spesso accade in questi casi a precedere il fronte venne lo scirocco e questo, anche se ancora non lo sapevo, era il segnale che più a est c’era alta pressione, quella che avrebbe bloccato il moto verso est del sistema perturbato, provocando tutto quello che stiamo per descrivere.

La sera del 7 ottobre cominciò a piovere all’ora di cena al Lagaccio. E piovve subito forte, ricordo come ci affacciammo io e i miei genitori alla finestra, a sentire quell’odore particolare che la prima pioggia fa sprigionare quando, in estate e inizio autunno, il terreno è caldo. Quello che onestamente non ricordo è se c’era temporale o meno, fatto sta che andai a dormire sotto l’acqua che continuava a cadere copiosa. Ma già prima che io andassi a dormire il primo dramma di quella grande alluvione si era già consumato, quello di Voltri invasa dal Leira.

Voltri, 7 ottobre 1970, ore 19.30: un uomo dice alla moglie “Scendo a spostare la macchina”, nessuno lo rivedrà mai più. Nello stesso momento un altro uomo è alla finestra, vede una 600 blu con due persone dentro, due fidanzati, nel momento che la marea del Leira travolge l’auto e la trasporta verso il mare. In soli 12 chilometri il Leira scende da 700 metri al mare, fa un vero tuffo nel Mar Ligure. Quanti affluenti ha? Nessuno sulle carta, ma infiniti quando piove a dirotto e l’acqua cola dalle montagne nella valle, come accadde quella sera. Ma la causa del dramma pare sia stata un camion carico di tronchi negligentemente lasciato nel letto, asciutto, del torrente. L’onda di piena ha travolto il camion, ha portato i tronchi contro il ponte della ferrovia, dove si è formata una diga che ha sbarrato le acque portandole a una rapidissima e violenta tracimazione. Solo a disastro già avvenuto la pressione sul ponte lo ha fatto crollare. In pochi minuti le vie della frazione diventarono torrenti di acqua limacciosa che invase case, negozi, uffici, portando al mare, così vicino, suppellettili, automobili e purtroppo anche cadaveri.

Il cielo plumbeo e la pioggia battente ci dettero il buongiorno anche l’8 ottobre. Erano altri tempi quelli e non dovete pensare ai miei genitori come degli incoscienti se mi mandarono normalmente a scuola quella mattina (e ovviamente a piedi e da solo! ma era così per la stragrande maggioranza). Che viaggio! La Via del Lagaccio la percorsi in discesa, sotto la pioggia che cadeva, ma era a terra che la situazione era impressionante, con la strada trasformata in torrente, il quale precipitava poi con una cascata assordante nelle griglie che si trovavano nel punto più basso della strada, prima che questa risalga per scavalcare la ferrovia, dove parte la cremagliera per Granarolo.

D’altronde anche mio padre, che doveva recarsi per lavoro ad Alessandria, andò regolarmente a prendersi il suo treno e quindi, pur nel diluvio, la mattina per la mia famiglia partì come tutte le altre, come quella di molte altre famiglie, tanto che ricordo che a scuola c’eravamo quasi tutti e le lezioni arrivarono regolarmente al termine.

Un’altra bagnata per tornare a casa e … sorpresa, mio papà a casa. Doveva tornare a metà pomeriggio e quindi subito gli domandai “Che ci fai già a casa?”. Dal suo racconto iniziò a prendere forma l’enormità di quello che stava accadendo, anche perché nel frattempo dalla radio mia mamma aveva saputo del disastro del Leira. Ecco così che mio padre mi raccontò del Polcevera gonfio e minaccioso arrivare con le sue acque a lambire il terrapieno della ferrovia, in alcuni tratti unico punto asciutto, con le strade infatti allagate (la foto di copertina de “Il Giorno” del 10 ottobre ritrae proprio a tutta pagina il Polcevera, anche se nella didascalia è indicato come Bisagno, probabilmente qualche ora dopo con i binari ormai coperti dall’acqua), in un contesto tale da convincerlo a non proseguire e a prendere un treno per rientrare.

Si pranzò, il diluvio continuava, anzi la pioggia aumentava ancora d’intensità. Dove abitavamo noi, sul lato opposto della Via Lagaccio c’era un muraglione alto una decina di metri, con vari fori da cui quando pioveva usciva l’acqua che scendeva da una zona a verde, ma selvatica, sovrastante, a sua volta sovrastata dagli alti palazzoni cui si poteva accedere sia dal basso dal Lagaccio, sia dall’alto dalla Via Bari, ultmo tratto della Circonvallazione a Monte prima di San Francesco di Paola. Era normale vedere l’acqua uscire da questi fori, ma mai avevo visto né rivedrò uscirne, come quel pomeriggio, delle autentiche cascate che si proiettavano verso il centro della strada.

Il nostro alloggio era all’interno di una caserma dell’Esercito (arma in cui prestava servizio mio padre) e il piazzale dove in genere si parcheggiavano le auto era nel punto più basso della struttura. Vista la situazione, e considerando che sotto la caserma e tutta la via Lagaccio correva il tunnel emissario delle acque del lago (oggi ricoperto) che dà appunto il nome al quartiere, mio padre verso le 14 decise di andare a spostare la macchina, portandola in un punto più alto e mai decisione si rivelò più felice.

Tra le 14 e le 15 la pioggia divenne ancora più violenta, si capiva che la situazione era grave e giungevano notizie che il Bisagno, il torrente che attraversa la zona di Staglieno e dello stadio per poi scorrere sotterraneo fino alla Foce, nella zone Fiera, era sempre più grosso e minaccioso. E poco dopo le 15 accadde infatti l’irreparabile.

Ecco una testimonianza dell’epoca, tratta dal Corriere Mercantile del 9 ottobre: “Subito dopo le 15 ero nei pressi del Ponte di Sant’Agata. Mi sono reso conto che stava per crollare. Ho fermato alcune persone che stavano per attraversarlo e mentre le trattenevo il ponte è precipitato di schianto. Voltandomi, ho visto due donne cadere in acqua, con l’ombrello aperto. Purtroppo per loro non c’era più nulla da fare”.
Sempre dal Corriere Mercantile: “Eravamo alle finestre del nostro giornale, quando il Bisagno ha invaso Piazza Verdi (n.d.r. quella di fronte alla Stazione Brignole). In un attimo il panico, siamo scesi in strada impotenti, la piazza è diventata un lago con auto impazzite, gente stupefatta e pervasa dalla paura, salvataggi improvvisi, piccoli attimi di egoismo e di abnegazione. Quando l’acqua si è ritirata davanti alla stazione c’era un maiale morto, un armadio, una macchina da cucire con un lembo di stoffa fermato sotto l’ago. Le auto si erano accavallate, fermandosi in posizioni ridicole, sballottate nella pazzia improvvisa del torrente”.

Oltre a tracimare poi il torrente è anche “scoppiato”, non più contenuto nel suo condotto sotterraneo, facendo saltare i lastroni nelle Vie Brigata Bisagno e Brigate Partigiane, sotto le quali scorre il condotto stesso. La tragedia non si esaurì a monte della ferrovia, anzi. L’acqua defluì abbastanza rapidamente da Piazza Verdi proprio perché scese verso zone più basse, tanto che in Corso Torino e Via Casaregis e nelle strade che intersecano queste due arterie che scendono al mare parallele tra loro a est del corso sotterraneo del Bisagno, si accumularono fino a 5 metri di acqua e fango, con anche qui auto accatastate in modo assurdo (molte finirono invece in mare verso la Foce).

Via XX Settembre, ampia e trafficata arteria commerciale, porticata nella parte più vicina a Piazza De Ferrari, congiunge appunto in salita Via Cadorna, tra la Piazza Verdi e quella della Vittoria, a Piazza De Ferrari e fu invasa dall’acqua solo nella parte bassa. Un dramma nel dramma, evitabilissimo vista la piega che stavano prendendo gli eventi, avvenne nel sottopasso al quadrivio tra Via XX settembre, Via Cadorna, Via Fiume e Via Brigata Liguria, che nessuno pensò a interdire all’accesso. Quando arrivò l’ondata di acqua e fango il sottopasso fu completamente inondato e diverse persone persero la vita in quella trappola.

Così il cronista de “Il Giorno” descrisse l’arrivo dell’acqua in Via XX settembre: “Mi ero rifugiato in un caffè. La gente commentava l’alluvione di Voltri, avvenuta la notte precedente. A un certo punto si è udito come un coro di voci, un bisbigliare frenetico ad alta voce. Mi sono precipitato fuori e ho visto salire, da Piazza della Vittoria, lungo Via XX settembre, il mare. Una scena incredibile, inverosimile, da fantascienza: galleggiavano auto, pullman, mobili, pezzi di legno. L’acqua era marrone. La gente urlava “E’ l’acqua del Bisagno” e tutti fuggivano in su, verso Piazza De Ferrari”.

Nel pomeriggio sulle alture di Quezzi, sopra Marassi, cedette un’ala del grande edificio Gescal soprannominato “Il Biscione” per la sua singolare forma (la voce che in quelle ore frenetiche correva per la città era che fosse venuto giù tutto l’edificio, abitato da 900 famiglie!). Fortunatamente questo episodio non provocò vittime, in quanto le 14 famiglie, molte delle quali rifugiate dopo il disastroso crollo di qualche anno prima in Via Digione, poco prima che uno smottamento di terreno alle spalle della costruzione trascinasse via le loro case, avevano lasciato le abitazioni avendo osservato una frana più modesta far scomparire un tratto della strada davanti all’edificio.

Fu dalle 14 alle 15 di quel pomeriggio la precipitazione più intensa. Il Corriere Mercantile pubblicò il 9 ottobre i dati forniti dal prof. Bossolasco, ordinario di Geofisica e Meteorologia dell’Università di Genova, che riferì essere caduti in quell’ora in città 72 mm, sommatisi ai 192 caduti dalle 19 del 7 alle 8 dell’8 e ai 64 scesi dalle 8 alle 14 dell’8. Altri 105 caddero dalle 15 alle 19, portando il totale a 433 mm in 24 ore, cui se ne aggiunsero altri 41 fino alle 8 del mattino seguente, quello del 9 ottobre.

Per meglio comprendere il quadro meteorologico generale ricordo che quell’8 ottobre lo scirocco portò Alghero fino a 32°C, ribaditi poi il giorno 9, quando si toccarono anche i 30° a Roma e Firenze.

Ma torniamo all’ora della pioggia più intensa. Noi, nella nostra casa al Lagaccio, la vivemmo angosciati sia da quanto era già accaduto, ma anche dai possibili rischi che forse non correva casa nostra, rialzata, ma certamente il nostro quartiere, percorso dal condotto emissario del Lagaccio. Con i vicini era tutto un consultarsi, un chiedere “sai com’è il lago?”, “reggerà la diga?” e così via. Quello che accadde nel quartiere e anche fuori Genova (quasi tutta la provincia e in parte anche l’alessandrino furono coinvolti dagli eventi alluvionali) sarà l’oggetto del prossimo capitolo.

Durante il diluvio del pomeriggio dell’8 ottobre 1970 vi ho raccontato come mio padre decise di spostare la nostra macchina (tra l’altro nuova!) dal piazzale della caserma dell’Esercito dove aveva l’alloggio di servizio, preoccupato della possibilità che cedesse la diga del Lagaccio, piccolo specchio d’acqua, poi ricoperto, che si trovava nella parte alta del quartiere cui dà il nome. La diga resse, ma la scelta di spostare la macchina fu comunque giusta perché quello che non resse alla pressione fu il condotto sotterraneo, i cui tombini scoppiarono in vari punti. Oltretutto nella caserma alcuni tombini saltarono all’interno di un vasto magazzino dove si trovavano fusti di gasolio e olio da motore, entrambi a uso dei veicoli militari, e quindi il magazzino si riempì di acqua mista a questi altri fluidi, fino a che la pressione fece saltare il grande portone e la massa di acqua e nafta eruppe verso il piazzale della caserma fuoriuscendo poi lungo la Via Lagaccio. Un piccolo episodio che non causò danni alle persone, ma non dimenticherò mai quella banda nerastra lasciata a circa un metro di altezza su ogni cosa, automobili comprese, che rimase quando l’acqua fu defluita, come se un imbianchino avesse deciso di fare un battiscopa un po’ troppo alto ovunque, su muri, automobili, porte etc.

Com’era quindi Genova nel tardo pomeriggio dell’8 ottobre? Era una città in ginocchio, con la valle del Bisagno, Cimitero Monumentale di Staglieno compreso, e tutta l’area tra la Stazione Brignole e la Foce invase da metri di acqua che, quando defluì, lasciò il fango nelle strade e nei negozi e nelle case devastate, che subito i genovesi cominciano a cercare di eliminare, presto aiutati da un esercito di volontari, quegli stessi “angeli del fango” in molti casi che avevano aiutato Firenze a sollevarsi dopo la mazzata dell’alluvione 1966. Ma Genova è una città di saliscendi e a Piazza De Ferrari, a poche centinaia di metri dal disastro, era difficile immaginarselo, con la grande fontana illuminata e i negozi aperti, con i neon accesi. Pochi giorni dopo, forse già il 9 o più probabilmente il 10, anche noi andammo in centro e percorremmo Via XX settembre in discesa, una via normale fino al Ponte Monumentale, da cui già si vedevano in fondo le autopompe dei Vigili del Fuoco che, nella parte bassa della strada, toglievano l’acqua e il fango dagli scantinati. E lì, naturalmente, ci si fermava, visto che nella parte più devastata per molti giorni potevano entrare solo le squadre di soccorso.

Ovviamente andarono in tilt tutti i servizi. L’Aeroporto rimase chiuso dalla sera del 7 alla mattina del 9 ottobre, furono chiuse tutte le autostrade nel tratto urbano per frane, le ferrovie principali ebbero solo brevi interruzioni, ma sia quella per Ventimiglia che quella per Milano funzionarono per molte ore a binario unico, con conseguenti ritardi e disagi, la ferrovia per Ovada rimase chiusa un paio di giorni nel tratto Acquasanta-Mele. Danni enormi ebbe l’azienda di trasporti pubblici cittadina, con molti mezzi danneggiati, sia tra quelli in movimento sia tra quelli che si trovavano nelle rimesse che furono allagate. L’impossibilità di utilizzare per vari giorni i filobus sia per la necessità di deviare molti percorsi sia per le interruzioni di energia elettrica fu forse l’elemento che decretò la fine dei filobus a Genova (prima della loro recente reintroduzione). Naturalmente venerdì 9 e sabato 10 ottobre rimasero chiuse anche le scuole, mentre molti problemi vi furono anche nell’erogazione dell’energia e nel funzionamento dei telefoni.

Abbiamo già detto nella prima parte che il disastro partì dal ponente genovese, anzi dal suo estremo, Voltri. Ma se il Bisagno fece poi i danni maggiori e molte vittime il giorno 8, non dobbiamo dimenticare che allagamenti interesserano Sampierdarena, Cornigliano, Pegli, dove comunque non vi furono morti.

Nell’entroterra genovese rimasero isolate molte frazioni nel comune di Serra Riccò, gravi danni vi furono anche oltre il Passo del Turchino, a Masone, devastata dall’esondazione del torrente Vezzulla, Campoligure e Rossiglione, dove fu semidistrutta la Meazzi, un’azienda di apparecchiature musicali. Più a ponente danni ed allagamenti anche ad Arenzano, dove vi fu anche una vittima.

Nell’entroterra di Voltri furono pesantemente colpiti Mele e Acquasanta, servite come detto dalla ferrovia per Ovada. Alla stazione di Mele rimase a lungo bloccato un treno con oltre 200 passeggeri e l’acqua che arrivava alle carrozze, un altro treno con 300 persone rimase bloccato per 20 ore a Borzoli. Tre morti vi furono in località Fondo Crosa, presso Mele.

Acquasanta ebbe 3 vittime, il macellaio e alcuni dei suoi familiari. Tra Acquasanta e Fondo Crosa il Leira alimentava numerose cartiere, che nei giorni prima della tragedia avevano minacciato di chiudere per la magra del torrente che rendeva impossibile lavorare normalmente. La piena della sera del 7 distrusse ben 12 cartiere e tre ponti, nel tratto citato.

Un’altra zona colpita in modo pesantissimo dall’alluvione fu la Valle Scrivia, al di la del Passo dei Giovi. Lo Scrivia scorre ancora in territorio ligure attraverso Ronco Scrivia e Isola del Cantone, poi entra in Piemonte poco prima di Arquata Scrivia. Delle due vittime in Valle Scrivia una perse la vita molto più a valle, lungo la strada Sale – Castelnuovo Scrivia, dove una Fiat 1500 la sera dell’8 ottobre fu travolta dalla piena. La occupavano moglie e marito, lei uscì in tempo dall’auto, lui, menomato a una gamba, tentò di tenere il controllo del mezzo che si trasformò in una trappola mortale. L’altra vittima in valle fu un giovane di Arquata che si trovava su un ponte, insieme ad altri tre ragazzi, aggrappatisi fortunosamente a un pilone e salvati da un barcone dei Carabinieri, nel momento in cui lo stesso è crollato, nel tardo pomeriggio dell’8 ottobre. Si salvò, pur gravemente ferito, anche il sacerdote che accompagnava i quattro ragazzi.

Il paese di Isola Sant’Antonio si trova nell’alessandrino, quasi al confine lombardo, presso il punto in cui lo Scrivia si getta nel Po. Per questo paese e il vicino, più piccolo, Guazzora, fu deliberata l’evacuazione totale il pomeriggio dell’8 ottobre, operazione poi sospesa nella notte seguente quando si capì che il Po era riuscito a ricevere nel suo alveo l’onda di piena dell’affluente. Il sollievo degli abitanti fu però bilanciato negativamente dai gravi danni alle colture allagate e da quelli ai manufatti, compresi quelli della Fornace Ilvo a Molino de’ Torti, dove 30 operai tornarono al lavoro solo a primavera.

Danni e frane anche in Val Borbera, percorsa dall’omonimo torrente che si getta nello Scrivia tra Arquata e Serravalle. Nell’alta valle la strada per Mongiardino, da poco ampliata e riasfaltata, fu portata via dalla piena per un lungo tratto lasciando isolati i 500 abitanti.

Una paurosa piena la ebbe anche l’Orba, che nasce ai confini tra savonese, genovese e alessandrino. Il torrente straripò fra Capriata e Predosa e alcune cascine rimasero isolate.

Il 9 ottobre la situazione cominciò a migliorare lentamente. Cessate le piogge, salvo qualche residuo scroscio nell’interno, tutti i torrenti rientrarono negli alvei e si cominciò a far la conta dei danni che furono approssimativamente calcolati in oltre 130 miliardi di lire di allora (quando, ricordo, un quotidiano costava 70 lire e con 8-900.000 lire si comprava un’utilitaria). Ingentissime furono purtroppo anche le perdite umane, e senza dubbio alcune, come quelle nei sottopassaggi di Genova e forse anche quelle travolte sui ponti, si sarebbero potute evitare se fosse già esistito all’epoca un servizio di protezione civile a coordinare la situazione e a deliberare per tempo la chiusura delle strutture a rischio. Non ricordo la cifra esatta delle vittime, i quotidiani dei giorni concitati della tragedia davano cifre variabili, come sempre in questi casi, ma mi pare di ricordare che furono oltre 30 (alcune fonti riportano 25 solo a Genova).

Indubbiamente la precipitazione fu eccezionale. Abbiamo detto dei 433 mm in 24 ore in città, ma a Bolzaneto, quartiere periferico sito in Val Polcevera, la locale stazione meteo regionale ne registrò ben 948 e sui crinali vicini, dove le nubi vennero ammassate dallo scirocco, ne caddero probabilmente anche di più. I 948 mm di Bolzaneto sono l’evento precipitativo più intenso mai misurato in Italia nell’arco di una giornata e, probabilmente, il più intenso anche a livello europeo.

Tuttavia vi furono anche colpe, sia come già detto nel coordinamento dell’emergenza, con la mancata chiusura dei sottopassi e dei ponti dei torrenti in piena, sia nella prevenzione, ovvero nel mantenere puliti i letti dei torrenti, seccati dalla lunga siccità nei mesi precedenti l’alluvione e trasformati in una sorta di discarica, come accadde soprattutto a Voltri con il Leira.

E poi c’è il tema dell’abbandono della montagna. Ecco cosa dissero al cronista del “Giorno” alcuni abitanti di Voltri: “Il male è lassù. Guardi quelle colline brulle, spogliate dalla vegetazione, senza piante, tutte bruciate. I contadini hanno abbandonato la montagna, hanno smesso di curare gli alberi, i sentieri, gli argini dei torrenti. E adesso, appena piove a dirotto, il Leira diventa un fiume spaventoso”.

E a leggere oggi il bell’editoriale di Italo Pietra di 32 anni fa si inquadra un Italia ancora meno attenta di oggi al territorio, ancora in euforia da boom economico. Riporto alcuni brani nei capoversi che seguono.

“Le troppo frequenti alluvioni dicono le stesse cose al Nord, al Centro e al Sud. Dicono che la montagna è sempre stata troppo povera e trascurata per non essere un punto debole del nostro paese; dicono che l’alluvione, mal di montagna, discende da decenni di ingiustizia sociale, di privilegi anacronostici, di scelte disastrose.

In casa nostra l’agricoltura ha sempre avuto le condizioni di Cenerentola, di fronte all’industria, fortemente protetta, e nel quadro del mondo agricolo la montagna, naturalmente povera, magra, ha sopportato i sacrifici più duri, a cominciare dai disboscamenti. Così le alte valli, che in Liguria cominciano a pochi chilometri dalla spiaggia, non hanno potuto più reggersi in piedi, non hanno più potuto tenere la terra, l’acqua, gli uomini. Sono così cominciate le frane e le alluvioni, è cominciata la frana delle moltitudini verso le città e le forche caudine della speculazione edilizia che faceva soldi a palate. Così la montagna è rimasta nuda e sola, perché, dovendo scegliere fra i parchi forestali e i parchi automobilistici, non si sono scelti i primi”.

E oggi, 35 anni dopo? Oggi il problema non è la deforestazione, anzi laddove la montagna è stata abbandonata nella corsa alle città negli anni ’50-’60 il bosco ha guadagnato terreno, mangiandosi gli spazi un tempo coltivati intorno alle cascine e sui terrazzamenti. C’è però per la Liguria sempre la grave piaga degli incendi, che oltre a ridurre il patrimonio forestale lasciano il terreno spesso socnvolto, con i resti bruciacchiati delle pinete alla mercè della prima piena, che porta poi rami e tronchi a valle a ostruire i ponti o creare dighe naturali che poi cedono di schianto. Secondo me il problema non è neppure nella presenza di parchi, nazionali o regionali che siano. Il problema è la cura del territorio, del bosco e degli alvei, pur se in un’area come quella genovese il guasto a mio avviso è stato fatto in modo irrimediabile nell’edificazione selvaggia della collina (emblematico proprio il caso del Biscione, citato nella prima parte), riducendo gli spazi dove l’acqua può venire assorbita, per cui essa si precipita lungo le ripide strade.

Infatti sempre sul “Giorno” del 10 ottobre 1970 si leggeva: “Per anni e anni Genova ha puntato sull’edilizia, sono state lottizzate infinite aree a monte, il vecchio piano regolatore consentiva di costruire dappertutto; per permettere alla città di svilupparsi in modo abnorme orizzontalmente e verticalmente è stato interrato il corso del Bisagno, nella Val Polcevera si sono costruite raffinerie sul ciglio della strada, l’alveo dei torrenti è stato ristretto in più punti da impianti sportivi e industriali: sono cose che a un certo punto si pagano”.

Il mio racconto termina qui. Genova purtroppo ha vissuto da allora altre alluvioni, in particolare nell’ottobre del 1977, nel settembre 1992 e 1993, quando già non vi abitavo più da tempo, ma ho voluto raccontarvi quella del ’70 perché noto che, fra le grandi alluvioni d’Italia, tende a essere dimenticata, non essendo per esempio citata in un recente volume di un famoso meteorologo, dove pure si accenna ad eventi meno gravi. Consideratelo anche un omaggio alla città della mia infanzia, città che amo tuttora, a 30 anni da quando l’ho lasciata.

Era l’8 ottobre 1970 quando Genova venne sconvolta dalla piu’ grande alluvione della sua storia recente.

Io avevo pochi mesi di vita, pertanto l’ho vissuta solo attraverso i racconti dei miei genitori. Quel giorno mio padre riusci’ a salvare l’automobile, una 500 beige con tettuccio apribile in tela nero, legandola con una catena ad un palo. Ma il suo destino era segnato: la porto’ via il rio in piena durante l’alluvione di 7 anni dopo.

L’evento alluvionale del 1970 detiene ad oggi il record di pioggia caduta in 24 ore in Italia. Se infatti lungo la costa cittadina caddero mediamente circa 500 mm, pochi km nell’entroterra, a Bolzaneto, in Val Polcevera, ne caddero addirittura 948 e sui vicini crinali probabilmente ancora di piu’.

La storia di Genova è segnata dalle alluvioni. Dopo quella del 1970 vi fu quella del 1977 che colpì la Val Polcevera, poi le alluvioni degli anni ’90: nel 1992 fu soprattutto il levante cittadino, in particolare il quartiere di Sturla ad essere colpito, nel 1993 i quartieri di Pra e Pegli nel ponente e ancora l’Alta Val Polcevera e poi negli anni successivi Voltri e il Centro Storico.

A cosa sono dovute queste frequenti alluvioni nel capoluogo ligure? Non vi è dubbio che Genova sia soggetta periodicamente a violentissime precipitazioni concentrate in brevi periodi di tempo, capaci di far cadere dal cielo 300 o 400 mm di pioggia in poche ore e sui crinali ancora di più. Se a questa predisposizione “naturale” aggiungiamo la folle e disordinata ricostruzione edilizia del “dopoguerra” e fino ad almeno l’inizio degli anni ’80, con palazzi e strade costruiti in qualsiasi punto, coprendo le decine di piccoli torrenti e le centinaia di rivi che scendono verso il litorale dai monti, abbiamo un quadro completo della vulnerabilità alle forti piogge di questa città.
A seguito degli ultimi eventi alluvionali negli anni ’90 è stato costituito il CMIRL (Centro Meteo Idrologico della Regione Liguria) che avvalendosi di un’ampia rete di monitoraggio in tempo reale, strumenti radar e di modelli di previsione ad alta definizione (BOLAM e DALAM) è ora in grado di dare allarmi preventivi su situazioni potenzialmente a rischio.

Tuttavia, essendo cittadino genovese, dopo un lungo periodo in cui fortunatamente non si sono verificati eventi piovosi di eccezionale portata, noto un abbassamento del livello di attenzione verso i problemi idrogeologici della città, sia da parte delle amministrazioni locali, che col tempo si sono dotate degli strumenti necessari alla pianificazione territoriale (piani regolatori, piani di bacino ecc.), sia, purtroppo, soprattutto della cittadinanza.

La memoria collettiva è corta e questo lungo reportage dedicato alla grande alluvione del 1970 speriamo possa avere anche il merito di ridestarla.