Quattro soldi di dignità (e quattro mani per scrivere)
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Quattro soldi di dignitàQuesta notte ho incontrato una vecchia, e le sono sembrata l’anima di una peccatrice morta che girasse nel buio a comprarsi il paradiso con la carità.
Se ne stava accoccolata in una coperta cenciosa, con la testa incassata nelle spalle e le mani, grandi, posate sul grembo.

Tornavo a casa dal cinema, tenevo in mano un involto e non m’ero accorta di lei; guardavo a terra e ripensavo a certe donne che avevo incontrato poco prima, e ad una più in particolare: poco dipinta, con l’aria di una buona mamma e la borsetta stretta sotto il braccio.
Era vicino alla fermata dell’autobus, staccata di qualche metro dal gruppo delle altre posteggiatrici. Credo non le importasse di certi uomini che sapevano il suo prezzo, – commessi viaggiatori, rappresentanti al volante di automobili strisciate a colori vivaci – e contrattava con loro, col piede sul predellino, un’ora di letto per trenta euro.
Ma di certi passanti si vergognava: li vedeva avanzarle incontro e si accostava alla fermata, guardava sul cartello la scritta degli orari notturni, come una falena stanca di aspettare, e sgonfiava le guance con sbuffi leggeri. Restava lì finché quei passanti non s’erano allontanati, per poi tornare a chiamarsi gli uomini coi baffi neri e le macchine variopinte.

Io ripensavo a lei, e camminavo.
“Signora! – mi chiamò la vecchia – Signora, ha del pane?”
Lo disse guardando il pacchetto nelle mie mani e, di rimando, lo guardai anch’io: somigliava davvero ad un involto con dentro due panini, a una merenda non mangiata.
Una vecchia dalle grandi mani scure che chiedeva pane alle due del mattino sotto i portici di via Venti Settembre; io le rispondevo di no, e lei mi spiegava che le era parso, quel che tenevo in mano, del pane incartato.
Parlava educatamente, senza accenti, con voce sottile. Parlava in corsivo.
Le diedi qualcosa, e le sue benedizioni mi sembrarono vere, efficaci. Ma era notte.
Trovai lì vicino un bar che stava chiudendo e comprai una pasta, l’ultima sulla scansia. La vecchia restava appesa nello stesso angolo, come un ragno educato.
“Cos’è? – mi chiese afferrando la pasta avvolta nel cellophane, e senza togliere l’involucro se la ficcò in tasca – per più tardi, per più tardi…”
Mi guardava.
Le chiesi dove avrebbe dormito, ma avevo paura perché pensavo al suo odore nelle mie lenzuola.
“Ora viene una mia amica, tra poco, poi andiamo a casa sua, dormiamo lì”.
E per timore della sua puzza nel letto io le dissi di sì con la testa, finsi di credere alla storia dell’amica.

Lei continuava a fissarmi, aveva paura. A me o a se stessa mormorava che non c’erano bar ancora aperti a quell’ora di notte, che avevo fatto in fretta, e che non mi aveva visto andare e venire. Scuoteva la testa.
“Ancora un paio di giorni – saltò su d’improvviso – poi io e la mia amica andremo al mare; lei ha una bella villa, staremo molto bene, là…” e mi guardava, con le mani grandi e spesse di vene allacciate sulla veste. Era sporca. Le toccai la mano dicendole: “Buonanotte, signora” e lei si ritrasse impaurita.

A letto, odorando le mie lenzuola pulite, ho fatto pena a me stessa per essermi sentita buona per un istante.