sabato, dicembre 2, 2023
CreuZaDeMa

I maestri della “non scuola”

I MAESTRI DELLA NON SCUOLA
ReverberiDue fratelli. Vicini anche nei nomi. Gianfranco e Giampiero. A creare confusioni e generare malintesi. A differenza degli altri amici al bar, loro facevano sul serio. La musica sarebbe stata la loro vita. Così è stato. Anche se le loro facce non sono mai finite sulle copertine dei dischi. Lì ci finisce solo chi canta, mentre loro hanno fatto tutto il resto: hanno composto musiche, prodotto “i” cantautori, arrangiato brani. Ma soprattutto: hanno insegnato la musica ai futuri interpreti della “scuola genovese”. C’è chi, come Lauzi, non ha fatto fatica ad ammetterlo: «Il nostro riferimento era Gianfranco, che aveva qualche anno in più. Un fratello maggiore, e non solo perché già suonava nei locali: ci ha insegnato tutto.» Rincara la dose Adriano Rimassa: «Non dimentichiamo che per iscriversi alla Siae bisogna passare un esame. Avrei voluto vederli, senza le dritte dei Reverberi.»
È giusto dire le cose come stanno. Senza togliere meriti a nessuno ma piuttosto aggiungendone a chi di dovere. Ché in fondo basterebbe voltare pagina. Per scoprire che, dietro la facciata degli album, fra i credits, “loro” ci sono sempre: G.Reverberi. Ma chi? Giampiero o Gianfranco? I Reverberi.


I fratelli Reverberi

GIANFRANCO REVERBERI, IL FRATELLO GRANDE

Stride incontrarlo nella hall di un albergo, lussuoso finché si vuole, del centro di Genova. Stride perché Gianfranco Reverberi, del genovese, ha tutto: quell’accento burbero che un zeneize vero non perde neppure se lo trascini mille anni a Timbuctù; quella cordialità “un po’ così”, schietta, autentica, senza fronzoli, con il sorriso accennato e quasi pudicamente sepolto sotto un paio di baffoni; quell’umanità che è inutile spiegare, ché fra genovesi ci si intende e un foresto tanto non capirebbe…
Fosse davvero esistita, la “scuola genovese”, Gianfranco ne sarebbe stato il maestro. Certo non lo si può considerare un genitore che un giorno accompagnò i suoi pupilli dal preside, cioè dal produttore Nanni Ricordi, per divulgare il loro talento: non si può perché Gianfranco era suppergiù un loro coetaneo.
Un amico? Ecco: un amico va bene. Con la musica nel sangue, proprio come il fratello: «Eravamo a tavola, e Giampiero portava ancora i pantaloni corti, come si usava allora. Sentenziò che avrebbe fatto il conservatorio. Faccenda chiusa. Neppure mio padre osò replicare davanti a tanta fermezza. Per quanto mi riguarda, la cosa fu appena più complicata. Finito il militare, mio padre mi richiamò al dovere. Mi voleva con sé, ma gli spiegai con tranquillità le mie scelte: “Preferisco finire sotto un ponte con la musica che diventare ricco con l’edilizia.” Una decisione che lui, con tanto buon senso, rispettò in pieno: “Per carità Gianfranco, la vita è la tua.”»
Così Gianfranco Reverberi tornò a Milano, dove aveva conosciuto durante la naja Nanni Ricordi. Per fare il direttore artistico della casa discografica. Solo che lui a Milano, da buon genovese, si annoiava a morte: «Tanto che come cominciai ad avere un po’ di quattrini in tasca mi comprai macchine sempre più veloci, in modo da accelerare il ritorno a casa del venerdì.».
Rimaneva in ogni caso da risolvere il problema della saudade infrasettimanale.
Così Gianfranco, che ha casa, chiama “su” i suoi amici di sempre, a cominciare da Luigi Tenco e da Piero Litaliano, ovvero il poeta Piero Ciampi. Nanni Ricordi è un discografico in cerca di innovazione e Gianfranco gli propone i suoi amici, dapprima come interpreti di alcune sue composizioni, quindi autonomamente. Escono così i primi dischi di Luigi, Gino, Fabrizio, Bruno. Nomi e brani destinati a entrare nella cultura musicale e a rimanerci. E Bindi? «No, Bindi no. Contrariamente a quanto si afferma, lui seguì un percorso suo, tanto che i suoi primi successi sono precedenti al mio impiego a Milano. Vero è, però, che anche lui entrò presto a far parte del “mio” gruppo con Ricordi.»
Ma allora è vero quanto si dice in giro: non ci fosse stato Gianfranco Reverberi la “scuola genovese” non sarebbe mai nata? Nella risposta c’è ancora tutta la schietta genovesità di Gianfranco, che non si schermisce ma, per contro, mette bene in chiaro le cose: «Tecnicamente la cosa è innegabile: un artista può essere bravo finché si vuole, ma se non trova il modo di rivolgersi al pubblico il suo talento rimane inespresso. E in questo senso la mia presenza alla Ricordi fu decisiva. Tanto più che nessuno di “loro” aveva mai pensato di fare da grande il cantautore: vivevano la musica come un gioco, una passione, non come una possibile professione. Aspetto che peraltro ha rappresentato un altro dei loro grandi punti di forza: facevano le cose non per un pubblico, o peggio, per il successo, ma per piacere personale. Poi se le cose “andavano”, bene, altrimenti pazienza. I primi dischi di alcuni non vendevano un bel niente. Ma non era questo il punto.»
Comunque: erano bravi. «Ah, questo sì. Luigi poi era addirittura fenomenale, un vero talento innato. Gli bastavano pochi minuti per imparare a suonare per davvero uno strumento. E anche le sue composizioni erano, sotto il profilo squisitamente musicale, di ottima qualità.»
Il dilemma di fondo, tuttavia, rimane irrisolto e si condensa in una domanda: se Gianfranco Reverberi avesse abitato, che so?, a Napoli, si parlerebbe oggi di una “scuola napoletana della canzone d’autore”?
«No. Non è un caso che i cantautori siano nati a Genova. Il perché me lo spiegò un giorno Natalino Otto: Genova è stata la città italiana in cui più che altrove – per via delle “importazioni” di contrabbando o, se preferisci, di straforo – venivano diffusi, già durante la guerra, dischi americani. Sono nati così fenomeni come lo stesso Otto, Pippo Barzizza, lo swing. Certo quei dischi andavano ascoltati in abitazioni “ovattate”, al riparo delle orecchie dei fascisti spioni.»
E ciò spiega il filone americano, il jazz, la nascita, nel dopoguerra, delle varie band in cui si cimentavano i vari Tenco, Lauzi, De André, Paoli…
«A questo si aggiunse lo “sbarco” dei francesi: Brassens, Brel, che influenzarono in particolare Fabrizio e Gino…»
Genova non era però il solo porto di mare, in Italia…
«Vero. Però era una città musicalmente vergine. Priva cioè di quella tradizione che caratterizzava ad esempio Napoli. Così certe novità attecchirono più facilmente.»
Mettiamola allora in altro modo: se Gianfranco Reverberi fosse vissuto non alla Foce ma a Sestri Ponente, oggi avremmo altri cantautori?
«Ma no… Non voglio fare un discorso mistico, né tirare in ballo il destino, ma credo che le cose “debbano” accadere. Prendi ad esempio Gino: lui non era della Foce, era di Pegli, ma il caso volle che divenne compagno di scuola di Luigi al “Galilei”, oggi mi pare sia il “Leopardi”, sotto il ponte monumentale. Diventarono amici, e Luigi un giorno lo introdusse nella nostra band senza nome, composta dallo stesso Luigi, da Bruno Lauzi, Bruno Martinoli, un futuro ingegnere elettronico, e il sottoscritto al vibrafono. “È simpatico.” sentenziò. Poi, di fronte alla nostra genovesissima diffidenza, ci spiegava come Gino evitasse di essere interrogato: giustificava i suoi balbettii con una dichiarazione d’amore alla prof di turno. Quella lo cacciava, ma lui evitava il votaccio.
Ci accorgemmo poi che Gino aveva una voce particolare. E così Paoli, che da grande voleva fare il pittore, un giorno compose La gatta. Un caso? E il cinema Aurora, il solo a Genova che proiettasse esclusivamente musical, proprio sotto le nostre case? Un altro caso? E il bar lì di fronte, con il poeta anarchico Mannerini a influenzare culturalmente e poeticamente – forse più di qualsiasi lettura – Luigi e Fabrizio? Un caso anche questo?»
Riflessioni interrotte con un po’ di sussiego dal portiere dell’hotel: è arrivata la persona che accompagnerà Gianfranco a teatro. Il teatro è il Carlo Felice; là c’è Gino ad aspettarlo, per una serata che ne riconosce la carriera. A questo evento si deve la presenza di Reverberi a Genova, e l’occasione di intervistarlo di persona. Un caso?

GIAMPIERO REVERBERI, L’ ARTE DI ARRANGIARE

Aveva appena dodici anni, Giampiero, quando si esibì nel suo primo saggio musicale: un pezzo di Schubert eseguito al pianoforte. Oggi come allora non aveva bisogno di spartiti. Conosceva la musica a memoria. «Quella fu però l’unica volta della mia vita in cui mi inceppai, e non credo di essere stato emozionato. Ebbi solo un momento di panico. Poi improvvisai. Fino a chiudere il giro e tornare a Schubert. Alla fine dell’esecuzione l’applauso fu sentito e sincero. Nessuno si era accorto di nulla. Tranne la mia maestra…»
Guarda verso il mare, Giampiero Reverberi, mentre racconta i suoi esordi musicali. Esordi incoraggianti e incoraggiati dalla famiglia. «Mio padre acquistò dal ristorante San Pietro alla Foce, ubicato dove oggi c’è il distributore della Q8, un Bechstein per la cifra allora pazzesca di 500.000 lire.»
La strada verso il conservatorio di via Pisa è segnata e prelude a una carriera eccezionale, culminata nel successo mondiale dei Rondò Veneziano. «Ma c’è anche l’inno del Genoa…» sogghigna Giampiero. Che ha lasciato il suo segno musicale arrangiando molti successi dei cantautori genovesi, a cominciare da Fabrizio De André: basti ascoltare Tutti morimmo a stento o La buona novella. «Ma ho fatto anche i primi di Luigi, di Gino, di Bruno…
Erano i primi tempi “milanesi” di mio fratello e dei nostri amici, futuri cantautori. Gianfranco aveva bisogno di voci per le canzoni che lui componeva. Sfortuna volle che si scegliesse sempre dei cantanti – fra cui anche Celentano – che poi si mettevano a scrivere per conto loro…» A Giampiero per contro, il lavoro “dietro le quinte” andava benissimo. «Facevo prima» commenta. «C’era già tutto pronto, le musiche, tutto. Salivo a Milano per fare le basi, poi in sala di registrazione con i cantanti andava mio fratello, che era il direttore artistico».
Giampiero serba divertiti ricordi dei primi tempi milanesi del gruppo della Foce. «Stavano – io c’ero poco – tutti in una pensione nella Galleria del Corso, vicino agli uffici della casa discografica. La vita, lì dentro, cominciava alle tre del mattino. C’era un viavai di ragazze che non finiva più. Tanto che secondo me l’entraineuse che ispirò Luigi per Mi sono innamorato di te non era dell’Orchidea, ma di un locale della stessa galleria…»
Per anni Reverberi e Tenco si persero di vista: «Ci ritrovammo per Ciao amore ciao. Luigi era entrato in una nuova fase: quella della canzone popolare. Aveva sempre nuove idee, che riusciva peraltro a mettere in pratica benissimo. Agli inizi pensava al jazz, poi venne la canzone, quindi la canzone di protesta… Per raccontarne una: ricordo che una volta, per scherzo, ce ne uscimmo con la classica frase “A Luigi non far sapere quanto è buono il formaggio con le pere.” Si offese a morte, non ci parlò per giorni per avergli dato del “contadino”. Poi lesse Pavese, e a quel punto si riconciliò col mondo della campagna… Tornando a Ciao amore ciao: insisteva affinché “rallentassi” leggermente il brano, in modo da renderlo più solenne, e più calda la voce. Perché? Aveva ascoltato un disco, di Tina Turner mi sembra, realizzato con quella tecnica. Solo che in America avevano altri mezzi. In studio ci riuscì ancora ancora di combinare qualcosa, il problema fu l’esecuzione in diretta a Sanremo, complicata peraltro da altri fattori: Luigi non stava bene.»
Della collaborazione con Fabrizio De André, Giampiero ricorda in particolare un “fuori programma”: «Il lavoro che facemmo per “Gulliver”, un serial musicale che trasmettevano sul finire degli anni Sessanta alla “TV dei ragazzi”. Si faceva tutto in un quarto d’ora, gli attori erano bravissimi.»