GIRO DEL MONDO IN UNA PIAZZETTA
Da tanti anni Ruggero Coppola non veniva più qui. Il suo sguardo emette bagliori di memoria e rimugina pensieri mentre esplora il baretto affacciato all’angolo fra via Cecchi e via Casaregis. Tutto o quasi è cambiato qui, e difficile sarebbe cogliere l’atmosfera di “quel” tempo se non ci fosse lui, Ruggero, a ricordare e rievocare ogni cosa.
Ruggero era uno di loro, uno degli amici al bar, che almeno per quanto riguarda la frequentazione del locale non sono mai stati quattro. Quattro, come i Beatles. In ordine alfabetico: Fabrizio De André, Bruno Lauzi, Gino Paoli, Luigi Tenco. E Bindi? C’era anche lui. Ma seguì un’altra strada, un’altra storia, anch’essa da raccontare. Occorre però andare con ordine. «Lauzi non è mai stato qui, alla latteria Igea» come si chiamava il posto prima di diventare Roby Bar. E poi ancora. «Ci venivamo io e Luigi, eravamo due ragazzini senza un soldo in tasca. Altro che sedersi al tavolino e discutere di musica e filosofia! Passavamo i pomeriggi a giocare a calciobalilla, consumando magari un gazosino, per la gioia del barista che ci avrebbe mandati non dico dove.»
Barista? Si fa per dire. Bruno Costa era un bravo materassaio. Lo conferma Giuliano Crisalli, a quei tempi cronista del “Secolo XIX” ma soprattutto frequentatore del bar. Abitava proprio lì di fronte, Crisalli, al numero 3 di via Cecchi, nel palazzo dove c’era il cinema Aurora – già cinema Regina – che oggi è spezzato in due: la platea è una discoteca mentre una fetta di galleria ospita il cinema Instabile.
Coppola e Tenco si erano conosciuti da bambini: «Era inverno e Luigi, alto così, indossava uno strano berretto alla Sherlock Holmes». La musica? Sarebbe venuta dopo. Molto dopo, nella percezione temporale di un bambino; poco dopo, secondo i calendari degli adulti. Aveva dieci anni, Luigi, quando la famiglia si trasferì da Ricaldone per aprire in via Rimassa l’ingrosso di vini Enos. Del negozio rimane traccia solo nella memoria di Ruggero, che andrà a colpo sicuro nell’individuarlo: era al 157r, dove oggi c’è una tipografia. Appena più a monte, al 143r, c’è, curiosamente, un’enoteca. Fatto ancora più curioso in quanto quei locali ospitavano, nel primo dopoguerra, la drogheria dei Repetto, parenti stretti dei Tenco.
TE LO DO IO IL CLARINETTO!
C’è un nesso fra l’Enos e la musica di Luigi? «È presto detto.» va sicuro Coppola. «Nel negozio, gestito da Valentino Tenco, dalla mamma di Luigi e dal cugino Giovanni Zoccola, dava una mano un certo Mecco, cioè Domenico, un ragazzo di Maranzana, paese attiguo a Ricaldone, anch’egli emigrato a Genova. Mecco suonava il clarinetto. Fu lui a trasmettere a Luigi la passione per la musica».
Un elastico ideale riconduce parole e pensieri nel “Bar Igea” (oggi “Mini Mixing”) dove Ruggero, nel rispetto dei vecchi tempi, ordina giusto un caffé. «Fra gli altri coetanei ricordo i fratelli Reverberi: Gianfranco e Giampiero. Abitavano proprio lì, al numero 58 di corso Torino. Interno 20 e scala B, ma ciò che più conta, un settimo piano senza ascensore. Cosa che all’epoca non ci faceva né caldo né freddo, tanto più che casa Reverberi era una delle più ospitali della zona. Mamma Reverberi ci preparava pane, burro e zucchero mentre il padre, che sembrava il sosia dell’attore Tino Scotti, era di una giovialità stupenda.» Ci pensa un po’ su, Ruggero, poi afferma sicuro: «Non fosse stato per Gianfranco non sarebbe successo niente. Non perché i vari Lauzi, Tenco, De An¬dré, Paoli non fossero talenti autentici, quanto perché tutti loro suonavano e cantavano così, per gioco. Gianfranco li portò tutti alla Ricordi, e così nacque la “scuola genovese”. Che di scuola non aveva proprio niente, anzi, eravamo gente che la scuola la marinava, con conseguenti e solenni bocciature almeno da parte di alcuni».
LA SCUOLA DEL BAR IGEA
Detto che Luigi Tenco frequentò le scuole medie di corso Torino situate proprio di fronte a casa Reverberi, e futura “non scuola” a parte, il bar Igea aveva alcuni celebri habituè: «Gente che aveva pochi anni più di noi, ma che ci sembrava già “grande”.» spiega Coppola «Penso a Giuliano Crisalli ma soprattutto a Riccardo Mannerini, che abitava nel palazzo del bar. Un omone con un carisma impressionante e una cultura altrettanto sorprendente. Uno che teneva banco e testa a tutti. La sua figura, le storie che sapeva raccontare ma soprattutto la sua competenza ne fecero un punto di riferimento per i futuri cantautori. Luigi sarebbe risultato il solo, più avanti nel tempo, a tenergli testa nelle discussioni politiche, mentre con Fabrizio De André è nota la collaborazione per Senza
orario senza bandiera dei New Trolls e per Tutti morimmo a stento, cioè il primo concept album della storia musicale italiana, in cui Il cantico dei drogati deriva da Eroina. Una poesia pubblicata, insieme ai testi originari di Senza orario senza bandiera da Antonello Cassan nel volume Un poeta cieco di rabbia. Il libro ha venduto mille copie. Incredibile, per un libro di poesie.
A fornire dettagli sulla figura di Riccardo Mannerini e sulle sue frequentazioni al bar è il figlio Ugo, con aneddoti divertenti che aiutano al contempo a leggere la personalità paterna: «Durante gli incontri di boxe regolarmente teletrasmessi al bar, mio padre aspettava un po’ a schierarsi. Poi prendeva le parti del più debole, scatenando risse verbali con gli avventori che, tutti o quasi, tenevano per “l’altro”. E il bello era che a parole “vinceva” lui. Il bar, gli amici erano come una sua seconda casa. Tanto che scendeva in pantofole. Che nel suo caso erano degli zoccoli fragorosi. Nonostante la quasi cecità camminava velocissimo, aumentando così il frastuono del suo passo.»
Certo non tutti i frequentatori del bar Igea erano bella gente: «Da ragazzini non comprendevamo, ma lì c’era di tutto: contrabbandieri, ruffiani, prostitute…» Riprende Coppola «Il che dà l’idea di quale zona fosse, all’epoca, la Foce. Una zona “di frontiera”, storicamente appena fuori le mura e oltre il Bisagno.
La merce di contrabbando veniva scaricata qui, fuori dal porto e lontano dai controlli della finanza, sulla spiaggia che si estendeva dove oggi hanno fatto piazzale Kennedy e la fiera del mare. Il tutto mai alla luce del sole. Poi magari si andava a festeggiare, o a riscuotere, o a trattare, in un bar o in un locale notturno. Ti sei mai domandato come mai ci sia qui intorno un tale affollamento di night club?»
Segue Parte 2…
UN’ ENTRENEUSE ALL’ ORCHIDEA
Uno di questi locali notturni era l’Orchidea e si trovava in via Casaregis, ai numeri 30, 32 e 34 rossi. Bastano quattro passi verso il mare, sullo stesso lato del vecchio bar Igea, per individuare il locale, oggi “Nuova Orchidea”. A un’ entraineuse dell’Orchidea, un Luigi Tenco ormai decisamente meno squattrinato e più smaliziato avrebbe dedicato Mi sono innamorato di te il cui testo, alla luce (soffusa) di questa rivelazione di Giuliano Crisalli, risulta meno ermetico.
COME PRIMA, PIU’ DI PRIMA
In certe sue parti sembra rimasto come allora, il quartiere della Foce. È così per la “piazzetta”, posto delle fragole o via Pal, più prosaicamente lo spartitraffico alberato di via Cecchi nel tratto fra via Martiri della Libertà, via Rimassa e via Casaregis. Ci sono ancora le panchine sulle quali amici e futuri cantautori – di lì a breve anche Bruno Lauzi sarebbe entrato nel gruppo, quindi Gino Paoli che si ritrovò compagno di scuola di Luigi, e saltuariamente Fabrizio De André – trascorrevano pomeriggi e serate, spesso a provare e riprovare i pezzi proposti da un musical che avevano visto al cinema Aurora, proprio di fronte al baretto: «Bisogna fare un salto di qualche anno, all’epoca in cui era esplosa in tutti noi la passione per la musica. Passione che ci era stata inoculata da quei dischi di musica jazz che il papà di Danilo Dégipo, un portuale, faceva arrivare a casa. E casa Dégipo, sempre in via Cecchi, al numero 11, era un altro ambiente molto ospitale insieme a casa Reverberi.» racconta Ruggero Coppola «C’è un particolare, tutt’altro che trascurabile: «Eravamo gli unici a possedere un pianoforte e un giradischi.» commenta al proposito Dégipo: «Per quanto riguarda il giradischi, sempre mio padre era riuscito a recuperare la meccanica, noi costruimmo il mobiletto. Era un impianto con i dischi “a cascata”.»
Pianoforte di casa a parte, gli strumenti degli estemporanei complessini lasciavano a desiderare. C’erano il clarinetto incerottato di Tenco, il bel banjo di Lauzi – che stava bene di famiglia – mentre: «La mia batteria era un insieme di sedie» conclude Dégipo. «Più che uno strumento sembrava una scenografia di Ionesco.»
E c’erano i pezzi da suonare. Pezzi che soprattutto Tenco, dotato di straordinaria memoria ed eccezionale orecchio, riusciva a riprodurre per primo dopo averli ascoltati magari una sola volta. Andava così con i dischi che sbarcavano a casa Dégipo, andava così in particolare con i musical. «Entravamo al cinema Aurora nel primo pomeriggio, uscivamo che era buio» conferma Coppola.
Lauzi ricorda che si entrava forzando le entrate laterali con un coltellino. Famiglia agiata o no, anche lui, come tutti i giovani di allora, aveva poche lire in tasca.
TRAGEDIE DI GUERRA E DI PACE
E c’era l’altro bar, della piazzetta. Il bar Ape, all’angolo fra via Cecchi e via Rimassa, oggi bar Molinaro. Il barman era uno famoso: Manlio Bacigalupo, portiere del Genoa, che dovette rinunciare ai mondiali del 1938 per un infortunio.
«Il figlio di Manlio, Sergio, era insieme a Luigi l’altro mio grande amico d’infanzia.» precisa Coppola «Legato a lui ho però un ricordo terribile: eravamo “lì” quella sera del 4 maggio 1949, quando arrivò la notizia che lo zio di Sergio, Valerio, il portiere del Grande Torino, era morto a Superga. Piangevamo tutti, alla Foce: parenti, amici, estranei.»
Bruno Lauzi si unì “dopo” alla compagnia: «Lui frequentava casa Rimassa, al numero 1 di via Ruspoli, angolo via Casaregis. «Era amico di Adriano Rimassa, fratello di Alessandro, partigiano ucciso proprio alla vigilia della liberazione, al quale venne intitolato il tratto finale di corso Torino.»
Non ha cambiato casa, Adriano Rimassa, che stenta ancora oggi a rievocare la morte del fratello: «Con altri suoi compagni prese d’assalto villa Gruber, dove erano di stanza i tedeschi. Una sentinella lo vide e gli sparò: c’è ancora la garitta, vicino all’albero dove era appostato Alessandro.»
Segue Parte 3…
ESORDIO IN CASA PER LAUZI E TENCO
Cambiamo discorso. «In un certo senso li ho tenuti a battesimo io, sia Luigi che Bruno: i miei avevano un appartamento libero al 2 di via Cecchi, nel palazzo dove stava Mannerini. Ideale per feste, anche danzanti, con possibilità di musica dal vivo. Furono quelle le prime esibizioni “pubbliche” dei futuri cantautori.» Anche Rimassa sottolinea come tutto nascesse per gioco: «Un giorno ci mettemmo in testa di inscenare “I morti senza tomba”, di Sartre. I miei erano arredatori e tappezzieri, avevamo la materia prima per Gino Paoli, che avrebbe costruito le scenografie. A un certo punto la cosa finì lì. Senza un perché. Forse perché era un gioco. Ma aggiungerei un’altra cosa: il bello della “Piazzetta” era la sua eterogeneità. Non c’erano distinzioni sociali né – come si direbbe oggi – unità di intenti. Ci si incontrava lì e basta. Tutti.»
Proprio di fronte alle finestre di casa Rimassa, cioè al 12 di via Casaregis, abitava prima della guerra il poeta Edoardo Firpo. «Stava da solo. I miei fratelli lo prendevano in giro perché si stendeva la biancheria. Allora era strano, per un uomo. Oggi sarebbe normale»
CASA LAUZI E IL BASEBALL DELLA FOCE
Al numero 51/17 di via Rimassa, all’angolo con il lungomare e lungo lo stesso lato del negozio di vini dei Tenco, si trovava, all’ottavo piano, casa Lauzi. Una foto scattata sul balcone affacciato sulla via ritrae Tenco, Lauzi e Dégipo intenti a suonare.
«Eh già, perché casa Lauzi era ospitale a metà: ne si frequentava in pratica solo il balcone. Spesso noi ragazzi venivamo addirittura chiusi lì fuori a fare fracasso con i nostri strumenti. All’occorrenza potevamo giusto bussare…» ghigna Coppola.
L’altra finestra di casa Lauzi si apriva su un panorama oggi scomparso. Un panorama che solo la memoria, o qualche fotografia in bianco e nero, conserva e restituisce: «Era la finestra della cucina, dalla quale si vedeva un campo di calcio esteso dove oggi è piazza Rossetti.» precisa Coppola. Come è possibile?
«Semplice: mancava ancora all’appello il caseggiato che oggi si affaccia su via Magnaghi/piazza Rossetti. Al posto del palazzo c’era un altro campo di calcio, più piccolo, dove giocavamo spesso e che ricordo per un particolare: era in pendenza. Tanto che chi finiva il primo tempo in netto svantaggio compiva nella ripresa sensazionali rimonte.»
Il campo “grande” era il terreno di gioco del GS Foce. Ma fu soprattutto quel terreno che iniziò Ruggero Coppola e altri a uno sport che gli alleati americani avevano scaricato a Genova insieme al chewing gum, la cioccolata e il jazz.
«Bruno fu fra i primi a introdurre il baseball fra i ragazzini della Foce, anche se io rimasi estraneo a quei fatti» precisa Coppola. Lauzi si presentò un giorno nel giardino di casa Rimassa con un regolamento in inglese. Guardando in pratica le figure e procurandosi il cuoio produssero dei guanti da baseball.» Adriano Rimassa corregge il tiro: «Mi capitò piuttosto di vedermi passare sotto casa
uno strano signore vestito, credetti, da fantino. Giocava nel Genoa Baseball, si allenava sul campo del GS Foce. Presto indissero una sorta di leva giovanile e ci invitarono. Io entrai in squadra, Bruno no: era grammo…»
Anche Coppola sarebbe finito al Genoa Baseball, ma attraverso altri percorsi: «Con amici notammo, era un tardo pomeriggio, sul campo della GS Foce quattro belle ragazze che si allenavano a uno strano gioco con dei bastoni. Ci avvicinammo, ci fecero giocare. All’inizio eravamo scarsi, poi ci prendemmo gusto e mano. Fra quelle ragazze c’erano due sorelle, una estroversa e una timida.
Quella timida era Fernanda Contri, futuro presidente del Consiglio Superiore della Magistratura. Le ragazze arrivarono a sfiorare il titolo italiano, che persero a tavolino per un errore di schieramento.
Il Genoa Baseball maschile, per contro, sarebbe arrivato, grazie all’innesto di alcuni di noi e l’entusiasmo che cresceva, in breve tempo dalla serie C alla serie A.
Cosa c’entra tutto questo con la musica? C’entra, eccome: ché Luigi (il quale si cimentò per breve tempo anche nel gioco), Bruno e Danilo Dégipo trasferirono il loro complessino sugli spalti dello stadio Valerio Bacigalupo di Cornigliano, che si trovava dove oggi c’è la rimessa degli autobus in fondo a via San Giovanni d’Acri, per esibirsi “all’americana”. Il tutto così, per pura voglia di divertirsi.
Lo spunto, manco a dirlo, venne da un noto musical proiettato al cinema Aurora: “Facciamo il tifo insieme”, i cui protagonisti Frank Sinatra e Gene Kelly (apprezzato per i suoi a solo) impersonavano due giocatori. Il film proponeva tutta la gamma delle canzoni sul baseball, a cominciare da quel Take me out to the ball game che salutava le squadre in campo. In America come a Cornigliano, dove non mancava neppure qualche sagace e salace improvvisazione: se qualche avversario irritava il pubblico, Luigi & C. attaccavano magari Torna al tuo paesello, suscitando ilarità e simpatia fra gli stessi avversari.»
La “sede” del Genoa Baseball era una panchina di via Rimassa proprio dirimpetto al bar Ape, che custodiva nel magazzino i “ferri del mestiere” degli atleti.
Segue Parte 4…
Si arriva in un attimo, da via Rimassa, a via Morin. Si svolta a sinistra, ed ecco a breve distanza, passato l’incrocio con via Cravero, un bar sulla destra e un ristorante cinese sulla sinistra. Il bar era la vecchia sede del GS Foce, mentre al posto del ristorante cinese c’era la trattoria Elia: «Un posto alla buona, si mangiava con mille lire» aggiunge Coppola «Anche qui “il sindaco” del locale era Mannerini».
Mannerini frequentava anche un altro locale della Foce, la Trattoria Ugo (oggi Ugo il Pirata), al 34 rosso di via Finocchiaro Aprile: «Forse quello era il covo dei radioamatori, all’ epoca clandestini, precisa il figlio».
NASCITA DI UN FRIGIDEIRO
Chissà se Ruggero ha lasciato apposta per ultima casa sua, al numero 26 di via Martiri della Libertà. Arrivarci è un attimo, è la strada parallela, verso occidente, a via Rimassa. Sembra bravissimo, Ruggero, a camuffare la nostalgia mentre riprende il racconto: «I miei non erano proprio ospitali, ma insomma qualche strappo lo facevano, in particolare per Bruno che era visto benissimo.
BINDI, LA MUSICA E IL MARE
Bindi evocherà la sua gioventù alla Foce in Io e la musica, scritta con Bruno Lauzi nel 1972: nella cucina di casa il giovanissimo Umberto suonava una fisarmonica tutta strappata e conseguentemente incerottata attraverso la quale soffiava, così immagina nella canzone, tutto il vento di Genova. Mentre lui, Umberto, era chiuso in una solitudine non voluta, con la musica sola a fargli compagnia prima di prendere a volare oltre il cortile su una strada, via della Libertà, dal nome ipocrita.
I ricordi legati al mondo e alle canzoni dei cantautori si spostano in riva a un mare che – allora – aveva anche la sua spiaggia. Una spiaggia che solo documenti d’epoca, oggi, restituiscono. Oppure le canzoni: avvolgente è Io e il mare, scritta da Bruno Lauzi e magistralmente resa in musica da Umberto Bindi, a evocare un mondo di mare, barche e pescatori. «Canzone bellissima» commenta Coppola. «D’altra parte Bruno ce lo aveva praticamente in casa, il mare: Durante certe mareggiate le onde invadevano la parte terminale di via Rimassa.»
Era una spiaggia vera, la spiaggia della Foce, senza i fronzoli che avrebbero caratterizzato il boom balneare di lì a breve. Una spiaggia che rifletteva il carattere scorbutico e minaccioso di un mare che forse nessun altro cantautore ha saputo descrivere meglio del foresto Paolo Conte, in quella Genova per noi cantata anche da Bruno Lauzi. Un mare violento, ma a modo suo generoso: le sue burbere carezze di sale levigano i ciottoli, sui quali sdraiarsi per accoppiamenti amorosi e magari un po’ clandestini: «La mia canzone Sassi è nata proprio sulla spiaggia della Foce, dove mi appartavo grazie alla complicità di qualche amico che faceva il palo…» ammette Gino PaoliAncora la Foce – sebbene non espressamente citata – è protagonista del brano Le acciughe fanno il pallone di Fabrizio De André. Si sa che De André amava la pesca e frequentava la Foce, nota zona di pescatori. Nel brano si cita anche il torrente, cioè il Bisagno, che negli anni ’50 usciva ancora allo scoperto nei pressi delle case dei pescatori. Un’altra citazione, forse estesa però all’intero quartiere, ne A domenega che sistema alla Foce delle prostitute dalle cosce particolarmente avvinghianti.
C’è infine un’avvincente poesia, ancora di Bruno Lauzi, a restituire meglio di altri (d’altra parte lui abitava lì…) quel mondo cancellato dalla modernità: la poesia ha per titolo Genova (Foce, 1946) ed è pubblicata nel volume Esercizi di Sguardo (Edizioni Marittime o, se preferite, “Lauzi editore”…). C’è un bimbo di nove anni che affonda a sassate una lattina che è nave corsara. Battaglie che duravano pomeriggi interi…
Segue Parte 5…
E FABER SBARCA ALLA FOCE
Percorrendo per breve tratto il corso Marconi, sotto i portici delle “case alte” progettate dall’architetto Daneri, si arriva all’angolo con via Casaregis, dove c’è una pizzeria. Fino a non moltissimi anni or sono c’era qui il ristorante Mentana, frequentato da Fabrizio De André che qui registrò alcuni dialoghi che introducono la canzone Sidun nell’album Creuza de mâ. Ma c’è di più: secondo Dori Ghezzi lo chef del locale potrebbe avere ispirato A çimma. Ad ogni buon conto «il Mentana era off-limits per noi ragazzi squattrinati» commenta Coppola. «Quello era già “il Ristorante” dove si mangiava raffinato e non c’era spazio, portafoglio o meno, per compagnie caciarone. Il fatto che lo citi Fabrizio – anche se in epoche decisamente diverse – mi dà lo spunto per segnalare quella che proprio era la differenza sociale fra De André, che abitava i quartieri letteralmente “alti” rispetto alla Foce, e il nostro gruppo. Fabrizio non era certo uno snob, ma insomma, il suo mondo era “lassù”, e di quel mondo faceva parte.
Fu poi la musica a creare dialogo e amicizie, in particolare fra Fabrizio e Luigi quindi, più avanti, fra Riccardo Mannerini e Fabrizio. Così, intorno al 1956, Luigi fu chiamato a suonare con il Modern Jazz Group, di cui facevano parte, oltre allo stesso Fabrizio, futuri grandi nomi della Genova imprenditoriale quali Titti Oliva e Alberto Cameli.»